domenica 3 aprile 2022

Critolao il più famoso sarto di Sicilia

Gaius Licinius Verres ( Verre) venne nominato Pretore di Sicilia nel 73 a.C. ed usufruendo di una imprevista proroga del suo mandato dovuta alla situazione particolarmente grave determinata dalla rivolta di Spartaco nel corso della quale il console Quinto Arrio, che era stato designato come suo successore quale Pretore in Sicilia morì, rimase in carica fino al 71 a.C.. Verre che viene ricordato dalle cronache storiche come il politico e magistrato di Roma più corrotto e avido del suo tempo, venne sottoposto ad un processo dal Senato Romano per gli abusi, le violenze e le depredazione consumate a danno dei Siciliani ed il suo accusatore, per conto dei cittadini di Etna-Inessa e Leontini fu Cicerone. Le famose “Verrine” non sono altro che le orazioni che Cicerone pronunciò per sostenere le accuse documentate contro Verre di cui abbiamo parlato nel nostro recente articolo “Le notti brave del Pretore Verre a Motta Santa Anastasia”, ovvero l’antica Etna-Inessa, luogo in cui Verre amava svernare anche all’epoca giacché era la sede di uno dei sei “Conventus”, ovvero una delle sei sedi di tribunali amministrativi della Sicilia ed anche sede privilegiata da Verre perché integrata nel territorio metropolitano di Catina, la più romana delle città siciliane. Ma torniamo a Critolao il più famoso sarto siciliano. E’ lecito, dopo aver contestualizzato il periodo storico di cui ci occupiamo, chiedersi in base a quali elementi ed informazioni storiche possiamo sostenere la fama di Critolao in Sicilia, quale miglior sarto, negli anni che vanno dal 73 al 71 a.C.: ebbene per rispondere a tale domanda ci viene incontro ancora una volta Nino Marinone che nei suoi scritti si è occupato delle vicende e dei personaggi della Sicilia sotto la Pretura di Verre. Nino Marinone ci informa infatti che Verre si faceva confezionare i vestiti esclusivamente da Critolao che viene indicato come un cittadino di Etna-Inessa. Non nutrendo alcun dubbio che Verre era nella condizione di scegliere il meglio delle cose di Sicilia… abbia scelto il miglior sarto che vi era in quel tempo nell’isola: Critolao!

martedì 8 febbraio 2022

Quando Verre e i suoi accoliti pranzavano a sbafo dai mottesi

Forse non tutti sanno che le famose “ Verrine” di Cicerone vennero scritte soprattutto a seguito delle rimostranze che gli abitanti di Leontini (l’odierna Lentini) e di Etna-Inessa (l’odierna Motta Santa Anastasia) manifestarono al Senato Romano a causa delle depredazione e degli abusi che Verre e i suoi accoliti avevano perpetrato a danno dei cittadini di quelle città. I cittadini di Etna-Inessa che chiesero a Cicerone di difenderli presso il Senato Romano furono Nynpho e Qunto Lollius; nella villa di Nynpho (con molta probabilità situata nel sottosuolo dell’odierna masseria Ninfo (ritratta nella foto che segue), Cicerone inizio a stendere i primi appunti per le sue famose “ Verrine”, così chiamate perché rivolte contro Verre.

Cicerone ci informa che intorno al 73 a.C. il territorio di Aetna era stato in parte assegnato in appalto gestionale al Cavaliere Romano Q. Lollius e probabilmente il rimanente del territorio di Etna venne assegnato a veterani dell’esercito romano o a cittadini romani bisognosi, come accadeva normalmente alla fine di campagne militari vittoriose; altrimenti veniva assegnato in appalto. La notizia storica oggettiva e documentata, fornitaci dalla testimonianza dello stesso Cicerone, è estremamente importante per la storia di Etna-Inessa in quanto, per gli elementi contenuti nelle verrine ciceroniane, elimina definitivamente dal contesto delle varie ipotesi di correlazioni tra Inessa-Etna e altri siti, tutti quelli scomparsi prima dell’inizio dell’era cristiana; consolidando, quindi, i riscontri circa la coidentificazione Etna-Motta Santa Anastasia e, quindi, Inessa. Q. Lollius, Arator dell’Ager di Aetna, ebbe in appalto una parte del territorio di Aetna già intorno al 110 a.C., atteso che negli anni Settanta del I secolo a.C., Cicerone ce lo indica quasi novantenne. Cicerone ci dice, inoltre, che il primogenito di Q. Lollius, Q. Lollius Q., residente a Roma, viene ucciso mentre stava per venire in Sicilia, ad Aetna, per sostenere il padre contro Verre. Sarà il secondogenito di Q. Lollius, M. Lollius Q., a testimoniare a Roma contro Verre sulle ingiurie e sulle vessazioni subite dal padre, cui la tarda età e la malattia non permisero di essere presente a Roma: Q Lollius morirà ad Aetna, dove probabilmente viene sepolto. Rileviamo inoltre che quella parte del territorio dell’odierna Motta, a suo tempo annesso all’Ager Aetnensis e il cui centro gravitazionale era situato molto probabilmente nell’attuale contrada Ninfo, nel sito della sua attuale masseria, viene anch’esso assegnato, con il sistema dell’appalto al richiedente che faceva la più alta offerta: per diversi periodi gran parte di esso fu assegnato a un imprenditore agricolo centuripino molto noto, Nympho, che a nostro avviso ha impresso il ricordo del suo nome nella storia di Motta Santa Anastasia dando, di fatto, il suo nome a quello di tale contrada di Motta Santa Anastasia, Ninfo appunto, quale nome attribuito a tale contrada in funzione del famoso appaltante che vi realizzò, probabilmente, dove oggi sorge la masseria, il centro direzionale della quota di Ager Publicus romano avuta in appalto. Tale contesto storico ci permette di affermare che la denominazione della contrada Ninfo sia stata determinata dal nome dell’appaltante che la gestì al tempo di Cicerone. La coidentificazione di Etna con l’odierna Motta Santa Anastasia, ci permette di dedurre con chiarezza due cose: la prima, che Etna durante il periodo in cui Roma conquistò la Sicilia non apparteneva né era inglobata nella Polis di Katana, giacché la città di Etna viene citata separatamente da Katana e per essa, Aetna (Etna), e che il suo territorio fu dato in appalto produttivo agricolo: quindi, già in precedenza, era stato assegnato all’Ager Publicus romano. Partendo dalla certezza che nel II secolo a.C. il nome dell’odierna Motta Santa Anastasia fosse Etna, abbiamo avuto la fortuna di trovare già pubblicate ulteriori notizie che riguardano il Cavaliere Romano (Equites) che ebbe assegnato, in appalto parte del territorio di Aetna. Per mettere in evidenza ciò, dobbiamo riportare quanto riferito anche da Augusto Fraschetti, ovvero che:

«Q. Lollius [...], quasi novantenne, viene ricordato come Arator nel territorio di Aetna negli anni della pretura di Verre»[i]. (1)

Delle vessazioni di Verre nei confronti di Etna-Inessa parla diffusamente anche il Carrera, che riporta notizie apprese dalle Verrine di Cicerone:

Queste notizie ci son descritte dal medesimo Cicerone in più luoghi delle orationi, che contra esso Verre compose. Intrinseco ministro era di Verre, e a lui simile ne’ costumi Apronio co’ Venerij preposto all’esattione de’ frumenti, che dagli aratori al pubblico si dovevano, per cui sfacciata licenza ne vennero assassinati i territorij di Catania e d’Inessa; havevan pure gl’Inessei mandato contra Verre l’ambasciatore Artemidoro. Scrisse Cicerone, che Apronio co’ Venerij essendo venuto ad Inessa fe chiamare a sé gli ufficiali della città, a’ quali ordinò, che nel mezzo della piazza gli fusse apparecchiata la mensa, ove ogni giorno desinar solea non solo in pubblico, ma della spesa del pubblico; gli si adornavano sontuosi banchetti con musica, e ivi egli trattenendo gli aratori cavava loro esorbitanti somme di frumento.” (2)

Da Cicerone, quindi, veniamo a sapere che Apronio assieme ai suoi collaboratori erano soliti frequentare la città di Etna, l’antica Inessa, l’odierna Motta Santa Anastasia, e che amavano festeggiare banchettando nella piazza della città così come viene riportato negli scritti di Cicerone, a spese degli Inessei. Il banchettare a spese degli abitanti di Etna da parte di Apronio, che per alcuni aspetti potrebbe essere considerato uno di quei normali obblighi posti a carico delle città per il mantenimento dell’apparato di governo e amministrativo romano nell’isola, deve essere valutato in relazione e nel contesto della complessiva azione di prelievo fiscale in Sicilia e alle procedure con cui venivano forzati i normali meccanismi di prelievo, di conferimento della produzione agraria e del sistema di valutazione del prezzo del prodotto: in tutto ciò Verre e Apronio, suo fido e strettissimo collaboratore si macchiarono di nefandezze e abusi ben documentati nelle cosiddette Verrine ciceroniane. La rovina dell’economia siciliana, l’abbandono dei campi e la desolazione delle campagne, determinati dalla scellerata azione di Verre e Apronio nei confronti della Sicilia, provocarono contraccolpi notevoli anche per Roma e le proteste dei Siciliani determinarono l’instaurazione di un processo contro il governatore della Provincia Sicilia. Solo la lettura completa dell’atto di accusa di Cicerone contro Verre può rendere l’esatta dimensione e le modalità oppressive del danno e degli abusi che Verre e i suoi accoliti consumarono a danno dei Siciliani e degli stessi cittadini romani residenti in Sicilia. (3)  La circostanza che il più stretto collaboratore di Verre, Apronio con i suoi accoliti, fosse solito frequentare la città di Etna non deve essere considerata una causalità o una scelta personale di costui: le funzioni che Apronio rivestiva, oltre che come esattore fiscale, si correlavano anche al ruolo che la città di Etna acquisì durante l’epoca romana in ambito giudiziario. Nino Marinone, nella sua introduzione al testo di Cicerone, sostiene che all’interno della riorganizzazione dell’amministrazione della giustizia in Sicilia da parte di Roma, la città di Etna divenne una delle sei sedi giudiziarie della Sicilia. Dice Marinone:

«L’isola era divisa in sei circoscrizioni giudiziarie (conuentus) che avevano come capoluoghi Siracusa, Marsala, Palermo, Agrigento, Messina e Etna».” (4)

Se con le evidenti differenze volessimo in qualche modo paragonare le sei circoscrizioni giudiziarie in cui venne suddivisa la Sicilia alla attuale organizzazione giudiziaria della Sicilia, potremmo correlarle alle attuali sedi distrettuali delle Corti d’Appello dei Tribunali Siciliani: Etna-Inessa, quindi, era una delle sei sedi di circoscrizione giudiziaria della Sicilia romana.

In questo luogo si trovava la piazza in cui Verre pranzava a sbafo degli abitanti di Etna-Inessa

La spregiudicatezza di Verre e Apronio nel depredare con sistematica violenza gli agricoltori siciliani e gli appaltatori del pubblico demanio determinò un diffuso abbandono della coltivazione delle terre; un passo di Cicerone, tratto dall’atto di accusa a Verre, illustra, in particolare, le vessazioni cui venne sottoposto Nympho:

Nympho è un abitante di Centuripe, un uomo attivo e laborioso, un coltivatore assai intraprendente e attento. Questi coltivava una grande estensione di terre presa in affitto, come solevano fare in Sicilia anche uomini benestanti, quale egli era, e la faceva fruttare con grande impiego di mezzi e di attrezzature. Verre lo tormentò con tanto malvagio accanimento che egli non soltanto abbandonò la coltivazione ma addirittura fuggì dalla Sicilia e venne a Roma, insieme a molti altri cacciatene da costui. Verre fece sostenere all’esattore [Apronio; sc.] che Nympho non aveva fatto la dichiarazione del numero di iugeri messi a coltivazione come prescriveva quello splendido editto, che non aveva altro scopo che i profitti di questo genere. Nympho voleva difendersi in un processo regolare, e costui assegna come periti degli uomini eccellenti, quel medico Cornelio che già conosciamo (si tratta di Artemidoro di Perga, che nella sua patria un tempo fece da guida e maestro a Verre nella spoliazione del tempio di Diana), l’aruspice Volusio e il banditore Valerio. Nympho è condannato prima ancora che sia stato bene accertato il fatto. Volete forse sapere a quanto. L’editto non fissava un’ammenda determinata, Nympho dovette dare tutto il frumento che aveva sulle aie. Così l’esattore Apronio si porta via non la decima dovuta, non del frumento recomerato e nascosto, ma 7.000 medimmi di grano, la produzione delle terre coltivate da Nympho, come ammenda per la violazione dell’editto, non già in base a una qualche clausola del contratto d’appalto che gliene conferisse il diritto.” (84)

Apronio, altri tre abitanti di Centuripe e la città di Etna ritornano nel racconto di Cicerone a sostegno della sua accusa contro Verre, il governatore romano, e Apronio, il suo più stretto collaboratore:

Sostratus, Numenius e Nymphodorus, tre fratelli della medesima città [Centuripe, sc.], erano fuggiti abbandonando i campi che coltivavano in società, perché riprendeva da loro più frumento di quello che avevano raccolto. Apronio raccolse degli uomini e si recò nelle loro terre, dove fece man bassa di tutti gli attrezzi, portò via la servitù, rubò il bestiame e quando in seguito Nymphodorus si recò da lui a Etna, a pregarlo di restituirgli ciò che gli apparteneva, egli lo fece arrestare e appendere a un olivo selvatico, una pianta, giudici, che sorge sulla piazza di Etna. A quest’albero restò appeso un alleato e amico del popolo romano, in una socius amicusque populi romani in sociorum urbe ac foro, sulla pubblica piazza e vi restò, un colono e coltivatore vostro, finché piacque ad Apronio.” (5)

E ancora, Cicerone ci informa sulle vessazioni subite dal cavaliere Quinto Lollio, che aveva in appalto una parte dei territori della città di Etna:

Dovevo parlarvi, giudici, di Quinto Lollio, cavaliere [equites] romano ragguardevole e onorato. È un fatto, quello di cui sto per parlarvi, divenuto famoso, continuamente citato e notissimo in tutta la Sicilia. Le terre che Lollio coltivava si trovavano nella zona di Etna, ed erano state consegnate, come tutte le altre, alla giurisdizione di Apronio. Lollio affermò, forte dell’autorità di cui da sempre godeva la classe dei cavalieri e del suo personale prestigio, che non avrebbe consegnato agli esattori più del dovuto. Queste sue parole vengono riferite ad Apronio. Allora questi si mise a ridere e si stupiva che Lollio nulla avesse sentito dire di Matrinio, nulla di tutte le altre vicende. Manda da lui degli schiavi di Venere. Prendete nota anche di questo: un esattore disponeva di servi pubblici assegnatigli dal governatore; e ditemi se questa non vi sembra una prova significativa che Verre abusò delle funzioni degli esattori per il suo lucro personale. Lollio viene dunque condotto o, per meglio dire, trascinato dagli schiavi di Venere davanti ad Apronio, proprio quando questi era appena tornato dalla palestra e aveva preso posto alla tavola che aveva fatto imbandire nella piazza di Etna. E Lollio in piedi deve presenziare a quel prolungato banchetto di malfattori. Per Ercole! Non crederei io stesso a quanto sto dicendo, giudici, benché ne abbia udito parlare da tutti, se il vecchio Lollio in persona non ne avesse molto autorevolmente parlato con me, quando piangendo mi ringraziò per la mia ferma determinazione di assumermi l’accusa di Verre. In piedi, come stavo dicendo, un cavaliere romano quasi novantenne deve presenziare al banchetto di Apronio, mentre Apronio si frizionava con profumo la testa e il viso. “E allora, Lollio?” dice “se non ti si costringe con le cattive, non sei capace di comportarti come si deve?”. Il poveretto non sapeva che atteggiamento assumere, se tacere o rispondere, insomma che fare, un uomo di quell’età, così autorevole. Apronio intanto si faceva servire cibi e bevande, e i suoi servi, che, della medesima origine e razza del padrone, avevano anche la sua medesima educazione, facevano passare tutto ciò davanti agli occhi di Lollio. I commensali ridevano, Apronio addirittura sghignazzava; o pensate forse che non ridesse mentre beveva e si divertiva quell’uomo che non può fare a meno di ridere ora che è in pericolo e rovinato? Per non farla lunga, giudici, sappiate che costretto da questi oltraggi, Quinto Lollio si piegò ad accettare le condizioni imposte da Apronio. L’età avanzata e una malattia hanno impedito a Lollio di venire qui a prestare la sua testimonianza. Ma che bisogno c’è della testimonianza di Lollio? Nessuno ignora questo fatto, nessuno dei tuoi amici, nessuno dei testimoni prodotti da te, nessuno interrogato da te, Verre, dirà che se ne sente parlare ora per la prima volta. È qui suo figlio Marco Lollio, un giovane di primordine; ascolterete le sue parole. L’altro suo figlio, Quinto Lollio, quello che accusò Calidio, un giovane pieno di virtù, energico e tra i primi per eleganza, scosso da questi soprusi e da questi oltraggi, era partito alla volta della Sicilia, e fu ucciso durante il viaggio. Si dà la colpa della sua morte agli schiavi ribelli, ma in realtà in Sicilia nessuno dubita che sia stato ucciso perché non riuscì a tenere nascoste le sue intenzioni nei confronti di Verre. Costui poi non aveva dubbi che al suo ritorno se lo sarebbe trovato di fronte pronto ad accusarlo […] sconvolto com’era per gli oltraggi subiti da suo padre e il dolore che aveva colpito la sua casa.” (6)

  1. Augusto Fraschetti, Per una prosopografia dello sfruttamento: Romani ed Italici in Sicilia (212-44 a.C.), in AA.VV., L’Italia: Insediamenti e Forme Economiche, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 67.
  2. Pietro Carrera, Delle memorie Historiche della città di Catania, Palazzo del Senato di Catania, MDCXXXIX, vol. I, p. 55.
  3. Cicerone, Il processo di Verre, introduzione di Nino Marinone, traduzione di Nino Marinone, Laura Fiocchi, Dionigi Vottero, VII edizione, Rizzoli, Milano 2010.
  4. Ivi, vol. I, p. 25.
  5. Ivi, vol. II, p. 611.
  6. Ivi, vol. II, pp. 613-617.

 

sabato 8 gennaio 2022

Katana città tetrapoli


Katana rifondata col nome di Etna da Ierone nel 475 a.C.

Mappa pubblicata dal “ Popolo di Sicilia”  del 19.11.1939

Come mutò la situazione urbanistica di Catania nel 475 a.C. dopo che la città fu conquistata da Ierone, tiranno di Siracusa ?

Il Carrera, riportando un passo di Strabone, narra della “ rifondazione” (1) dell’odierna Catania nel 475 a.C. da parte del tiranno siracusano Ierone, dopo che Katana era stata conquistata, e che venne “ Rifondata” col nome di Aitna ( Etna). Strabone, che narra anche delle vicende successive al 461 a. C., allorché i Siracusani che abitavano Etna furono costretti a trasferirsi nella vicina città di Inessa ( l’odierna Motta Santa Anastasia) dopo essere stati sconfitti dai ribelli siracusani alleatisi con Ducezio Re dei Siculi, città che venne altresì rifondata col nome di Etna: “ Priscos autem incolas Catana amisit, deductis eo alijs ab Hierone Siracusanorum Tyranno colonis, qui nome etiam Catanae in Aetnam mutavit. At sub exessum Hieronis Catanenses postliminio reversi Inquilinos eiecerunt. Aetnenses cedentes loco Inessam, quae in montanis est Aetnae, inhabitandam occuparunt, eique loco Aetnae nomen imposuerunt, dissito a Catana stadijs octoginta.” (2) Vito Amico, che cita Diodoro, ci fornisce altri dettagli su questa vicenda storica, che, dopo essere stati vinti i coloni siracusani di Catania da Ducezio, essi emigrarono nella costa montana dell’Etna, dov’è Ennosia, ossia Inessa, che si trovava distante da Catania dodicimila passi, la quale assunse poi il nome di Etna, e i Catanesi dopo il ritorno in patria occuparono le vecchie dimore che avevano dovuto lasciare al tempo di Gerone. Si direbbe che i Catanesi costretti a cedere Inessa non l’avessero appellata Etna, né che quel nome fosse stato divulgato dal nemico principe Gerone e neppure che vi fossero stati per molto tempo lontani, in quanto tornarono in patria due anni dopo la morte di Gerone. Si capisce che i coloni condotti a Catania da Gerone e cacciati via da Ducezio,  appellarono la città precedentemente chiamata Inessa dove emigrarono col nuovo nome di Etna, mutuandolo dalla città che avevano dovuto abbandonare, e simularono epicamente che ne fosse stato fondatore Gerone. (3) Varie cronache concordano sul fatto che i coloni siracusani provenienti anche da altre città della Magna Grecia furono fatti insediare nella parte nord di Catania, dove venne edificato un nuovo nucleo urbano che si aggiunse agli altri tre nuclei urbani preesistenti. Fu a questo nuovo nucleo urbano che fu dato il nome di Etna ( alcune cronache dicono Etnapolis). Gli storici di varie epoche hanno ritenuto che dopo il 475 l’odierna Catania fosse diventata una “ Tetrapoli”. Si esprime in questo senso Vincenzo Cordaro Clarenza che così narra: “  [ Gerone ] cambiò il nome di Catania in quello d’Etna, come se egli l’avesse dalle fondamenta edificata: [..] e secondo l’opinione di veri scrittori, sebbene non tanto ben fondata, Catania divenne in quell’ora Città Tetrapoli, o sia divisa in quattro grandi sezioni. La prima Dimeterea, che è oggi il quartiere dé Benedettini, dove era l’antico tempio di Cerere, chiamata pure Dimeterea: la seconda Luna, o perché vi era in quei contorni un tempio dedicato a quest’astro, o perché eravi il Forum Lunare: la terza Civitas, perché la le abitazioni trovavansi delle più cospicue famiglie, e questo quartiere conserva tutt’ora un tal nome: la quarta fu detta Etnapolis o sia città dell’Etna, forse per alludere all’ingrandimento fatto a Catania da Gerone.” (4) Della condizione di “ Tetrapoli” di Katana parla ancora il Carrera: “ […] nec non, an Catanae nomine una tantum urbs an plures comprehensae fuerint, quia nempe tetrapolis etiam nomine occurrant, quod quatuor urbes significavit […]. (5)  Vito Maria Amico ci fornisce notizie più dettagliate sulla struttura urbanistica di Katana – Etnapolis: “ Che un tempo Catania fosse una Tetrapoli, cioè un insieme di quattro città, o per meglio dire quartieri, ciascuno dei quali è paragonabile ad una città, posso affermarlo unitamente a Pietro Biondo autore del “ De Admirabilibus Siciliae” ( Delle ammirevoli cose di Sicilia), all’Arcangelo, al Grosso, al Carrera e ad altri che dai nostri traggono materia di studio, tramandando che l nome proprio fu Etnapolis, posta a tramontana, la cui cinta di mura oltre il sobborgo distava 20 piedi dal secondo quartiere, che si chiamava Dimitiraja, o meglio Demeterea, così detto da Cerere, che i greci appellavano Demetir, ovvero Madre Terra. In questo quartiere si ergeva un tempio, insigne per tutta la Sicilia, esposto ad occidente e settentrione, di cui rimangono ruderi accanto a quelli di altri edifici. Seguiva il terzo quartiere, che prendeva nome dal foro e dal tempio dedicato alla Luna, e infine il quarto, più vicino al mare, volto a mezzogiorno, era chiamato Catana.” (6) Giuseppe Resina, citando Pietro Biondo, dice: “ Leggiamo nel De Rebus Siculis Notandis di Pietro Biondo, vissuto nel cinquecento: “ Catania era una Tetrapoli composta di quattro parti: Aetnapoli, Luno, Demetria e Littoranea.” Aetnapoli era la zona a Nord ( Licatia e Gioeni); Demetria comprendeva S. Sofia e Cibali; Littoranea abbracciava Ognina, Porto Ulisse e Porto Saraceno; Luno comprendeva la zona esterna alla Porta di Aci ed estesa verso levante, con l’attuale piazza Carlo Alberto e zone limitrofe.[…]. (7)

Bibliografia e note:

  1. Vi è concordanza tra gli storici nel sostenere che con il termine “ Rifondazione” viene descritta la decisione di coloro che si insediavano in una città, conquistata, di attribuirle un nuovo nome.
  2. Pietro Carrera, Delle memorie Historiche della città di Catania, Palazzo del Senato di Catania, MDCXLI, vol. I, p. 233.
  3. Vito Amico, Catana illustrata, p. 146.
  4. Cordaro Clarenza Vncenzo – Osservazioni sopra la storia di Catania – Catania 1833 – tomo primo – cap. primo – p. 57.
  5. Pietro Carrera – Monumentorum historicorum urbis Catanae – Lugduni Battavorum 1550 – p. 19.
  6. Vito Maria Amico – Catana Illustrata sive sacra et civilis urbis Catanae Historia – trad. di Vincenzo Di Maria – Tringale Ed. – Catania 1989.
  7. Giuseppe Resina – Katana – Tip. R. Scuderi – Catania 1969 – p. 16.

venerdì 24 dicembre 2021

A Etna-Inessa il più antico tempio di Cerere

Il più antico tempio di Cerere nel territorio  della Repubblica Romana e la delegazione del Senato romano inviata a Etna-Inessa per invocarne il perdono e porre fine alla guerra civile dopo l’uccisione di Tiberio Gracco.





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Nella cultura e nei riti religiosi nell’antica Roma rivestivano un posto preminente nella interpretazione della volontà degli Dei, i Sacerdoti Sibillini cui era affidato il compito di scrutare nel futuro e nelle volontà attribuite agli Dei del Pantheon Romano nel determinare il corso degli avvenimenti, consultando i Libri Sibillini, da loro custoditi, ed osservando gli eventi che la natura proponeva agli occhi dei Sacerdoti. La religiosità romana riconosceva una importanza particolare alla Dea Cerere e a Giove Etneo, detto Eleuterio, i cui culti più antichi erano stati iniziati in Sicilia. Da una vicenda del II secolo d.C. che richiama il culto della Dea Cerere a Roma possiamo rilevare la reverenza dei Romani per quella Dea e per i luoghi più antichi del suo culto, in Sicilia nella città di Etna – Inessa, e per la sua potenza nel determinare avvenimenti fausti o infausti per Roma. Traendo spunto da alcune cronache del II secolo a.C., inoltre, attribuibili tra gli altri a Valerio Massimo, dobbiamo necessariamente concludere che Roma riteneva che il luogo ove più anticamente fosse stato celebrato il culto di Cerere fosse Etna-Inessa in Sicilia, l’odierna Motta Santa Anastasia.

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Del culto della dea Cerere riportiamo alcune cose scritte da Cicerone, che erroneamente indica Enna, o così almeno risulta nella traduzione del suo scritto, e non Etna-Inessa: “ Non solo i Siculi ma anche tutte le altre genti e nazioni onorano moltissimo Cerere di Enna. Perciò presso i nostri padri, in circostanze politiche gravi e terribili; sotto il consolato di Micio e Calpurnio si consultò i libri sibillini, facendo i prodigi temere gravi pericoli, essendo stato Tiberio Gracco ucciso, dai quali si scoprì che era opportuno che l’antichissima Cerere fosse placata. Allora dall’amplissimo collegio dei decenviri i sacerdoti del popolo romano, nonostante che nella nostra città ci fosse un tempio di Cerere bellissimo e molto magnifico, tuttavia arrivarono fino a Enna. Infatti tanta era l’autorità di quel culto che, andando in quel luogo, sembrava che non andassero al tempio ma da Cerere in persona.”

Un santuario di Cerere a Roma era ai piedi dell’Aventino era stato fatto innalzare nel 496 a.C. per decisione del dittatore Aulo Postumio, in ossequio al responso dei libri sibillini; tale tempio assunse fin dalla sua dedica avvenuta nel 494 ad opera di Spurio Cassio Vecellino, connotazioni rituali plebee. Vi si adoravano la triade di Cerere, Libero e Libera ( corrispondenti a Demetra, Dioniso e Kore). Secondo Cicerone le sacerdotesse dedite al culto della dea Cerere provenivano solo ed esclusivamente dal sud. Secondo Renato Del Ponte: “ Cerere era già presente nel pantheon dei popoli italici preromani, specialmente gli osco umbro sabelli e fu, in seguito, identificata con Demetra. Il suo nome deriva dalla radice indoeuropea *ker e significa "colei che ha in sé il principio della crescita". (1) Il culto di Cerere, cui era preposto un flamen minor, era inizialmente associato a quello delle antiche divinità rustiche di Liber e Libera e presentava delle similitudini con i riti celebrati a Eleusi in onore di Demetra (alla quale venne presto assimilata), Persefone e Iacco (uno dei nomi di Dioniso).

A Cerere è legato anche un culto che la lega al mondo dei morti attraverso il Caereris Mundusuna celebrazione religiosa che si realizzava attraverso l’apertura di una fossa sacra che veniva aperta soltanto in tre giorni particolari dell’anno, il 24 agosto, il 5 ottobre e l’8 novembre. Questi giorni erano considerati dies religiosi, vale a dire che in tali giorni ogni attività pubblica veniva sospesa perché l’apertura della fossa metteva idealmente e pericolosamente in comunicazione il mondo dei vivi con quello sotterraneo dei morti. Secondo Festo in quei giorni non si attaccava battaglia con il nemico, non si arruolava l’esercito e non si tenevano i comizi (2). L’apertura del Mundus era un momento delicato e pericoloso, non tanto per paura che i morti uscissero in massa invadendo il mondo dei vivi ma al contrario perché, secondo Macrobio, il Mundus avrebbe attratto i vivi nel mondo dei morti, specialmente in occasione di scontri e battaglie. (3)

Una nota storica del Ferrara costituisce una delle fonti che attestano l’importanza data da Roma alle divinità il cui culto veniva celebrato ad Etna-Inessa: “ […] Etna il luogo dove per suggerimento dei libri Sibillini il popolo romano mandò a placare l’antichissima Cerere nelle torbide circostanze della repubblica dopo la morte di Gracco.” (4)  E che quanto riferito da Francesco Ferrara sia da riferire ad Etna-Inessa ( e quindi all’odierna Motta Santa Anastasia ) e non ad Etna-katana ( Catania) è desumibile dal fatto che l’episodio avviene nel II secolo a.C. quando ormai l’unica città chiamata Etna era l’antica Inessa, già dal 461 a.C.. Il riferimento alla missione dei senatori del Popolo Romano indirizzata al tempio di Cerere ad Etna-Inessa impone, inoltre, una riflessione sul perché dell’importanza specificatamente attribuita da Roma alla dea venerata nell’antica Motta Santa Anastasia: parrebbe logico dedurre, stante le affermazioni degli antichi romani, che solo l’antichità del culto di Cerere a Etna-Inessa, considerato il più antico che i Romani conoscevano e che si trovava in Sicilia, poteva farle attribuire da parte di Roma quella esoterica“ Autorevolezza e Potenza” per cui si reputò necessario inviare proprio ad Etna-Inessa un’ambasciata del Popolo Romano per placare l’ira degli dei e porre fine ai disordini che travagliavano la Repubblica di Roma.  Ma quale era stato l’avvenimento che, secondo l’opinione dei Sacerdoti Sibillini, aveva scatenato la guerra civile a Roma ? Da un racconto di Valerio Massimo dovremmo concludere che la profanazione del tempio di Cerere a Calcitana, nell’odierna Calabria, avesse provocato l’ira della Dea Cerere. Ricaviamo le notizie sulle cause che avevano scatenato la guerra civile a Roma nel II secolo d.C. da uno scritto di Girolamo Pistorio: “I Romani per attestato del sudetto Valerio Massimo affin di prestare un esatto culto more graeco alla Dea Cerere, mandato aveano in Velia piccol Castello di Calabria a chiamare la Sacerdotessa Calcitana, o Galeferna, ma profanato questo Tempio Romano col decorso degli anni, tosto in Sicilia ricorsero per rendersi non solo placata la Dea, ma per in miglior guisa apparare i riti, e le cerimonie da praticarsi in ossequio della medesima, anzi una Sacerdotessa ne vollero, per esser di Maestra alle Vestali nel Tempio Cereale di Roma: Moniti ( fa d’uopo trascriverne il Testo) libris Sibyllinis, ut vetustissimam Cererem placarent, Aetnam, quoniam Sacra ejus inde orta credebant, quindecim viros ad eam propritiandam miserunt:  così Valerio Massimo. Ma della Sacerdotessa si ha quella celebre Iscrizione riportata già dal Gualtieri a relazione di Jano Grutero, e per tralasciare i tant’altri, da Voi medesimo nell’insigne vostra Raccolta, che Io in questo luogo trascrivo.

CASPONIA P. F.

MAXIMA

SACERDOS CERERIS

PUBLICA

POPULI ROMANI

SICULA (5)

Ancora più specifico e completo il riferimento che dell’evento scatenante e della missione riparatrice ne fa Pietro Carrera: “ Tanta fuit hujus templi religio, ut ab hac romani suas caerimonias desumpserint. Narrat Valerius Maximus, lib. I, cap. I, Occiso Tiberio Gracco, cum templum cereris Romae commaculatum esset, consules inspectis libris sibyllinis monitos fuisse cererem antiquissimam placari oportere, quunque Romani existimarent, sua cerealia sacra ab Aetnaeis originem trahere, misisse eo quindici viros. Moniti inquit, libris sibyllinis, ut vetustissimam cererem placarent, Aetnam quindici viros ad eam propitianda miserunt.” (6)

Anche Domenico Lancia Di Brolo riporta la decisione del Senato Romano di inviare Legati a placare l’ira di Cerere e le motivazioni che l’avevano determinata, pur confondendo Etna con Henna: “ Il Senato Romano quando pei tumulti dei Gracchi correvano gravi timori per la Repubblica consultati i libri Sibillini mandò Decenviri in Sicilia a placare l’antichissima Cerere; così diceano l’Ennese[ e non Etnense], perché quivi i sacrifici e i riti di lei si credevano nati, Valer. Maxim. De Relig. I.” (7)

Anche Ettore Pais richiama il particolare rapporto religioso dei Romani con la Dea Cerere: “ I Romani mostrarono il più grande rispetto per il culto di Giove Etneo e per quello di Cerere e Proserpina e, per ordine del Senato, essi placarono anche queste divinità; Diodoro XXXIV.10 dice che durante la prima guerra servile, il Senato Romano mandò una commissione in Sicilia … e Cicerone Verr. II.IV.108. racconta che dopo l’uccisione di Tiberio Gracco e dopo aver consultato i libri sibillini … .” (8)

L’invio di una delegazione del Senato Romano a Etna – Inessa per placare l’ira della Dea Cerere viene citata in maniera estremamente dettagliata da Giuseppe Tamburello: “ Mentre ancora perdurava la ribellione dei servi, sembra pure che l’ira del cielo si fosse scatenata in quei dì sulla Sicilia. Narra un recente ed illustre scrittore: la natura mescolava i suoi sdegni a quegli degli uomini, e l’Etna le sue fiamme a quelle onde ardeva civilmente il paese. Durante la famosa sedizione il Senato di Roma, consultando i libri sibillini, per mitigarne gli Dei, decretava d’inviare in Sicilia legati del collegio Decemvirale che teneva in sua custodia quei libri. […] Dopo la vittoria di Rupilio, eransi tornati a consultare i libri sibillini e il collegio decenvirale ripeteva: abbisognasi placare l’antichissima Cerere. [..] Dovunque, in tutte le terre dell’isola, tradizionale era la pietà religiosa dei Siciliani verso gli Dei e in codesta occasione, non i precetti di Roma, ma il sentimento spontaneo degli isolani faceva apprendere ai legati decenvirali, nuovamente tornati nell’isola, che la religione e il culto spontaneo alle Divinità celesti poteva solo raffrenare le umane passioni e dar conforto ai diseredati ed ai reietti. […] I sacerdoti, coperto il capo della sacra infula, in ogni dove offrivano sacrifizii espiratorii alla Gran Madre; e le ostie di pace erano offerte per placare l’ira dei Numi. [ il Tamburello identifica a mio avviso erroneamente in Enna e non in Etna il luogo dove sorgeva il più antico tempio di Cerere in Sicilia ] Un copiosissimo numero di scrofe bianche è il primo olocausto da dedicarsi alla Gran Madre. Indi copioso armento di vacche e numerose pariglie di tori saranno sacrificati alla Dea Giunone e a Giove Eleuterio. […] I Legati Decemvirali di Roma sono colà al loro posto per rendere gli onori alla Diva. Lo Stefanoforo, inghirlandato, apre le porte del tempio, i legati e i maggiorenti coperti di ricche toghe e di ricchi paludamenti a capo coperto vi accedono. Il popolo cade ginocchioni, presso le porte e presso i vestiboli del tempio, e intuona preci alla Dea. […] Il Collegio Decemvirale è rappresentato dai sacrificatori, dagli aruspici, dagli auguri, dai quindecemviri, dai flamini, dai salii, dai feciali, dagli epuloni, dai superchi. Il Capo dei legati, appena entrato nel tempio e accostatasi all’ara sacra, assume col permesso dell’Ierofante, le funzioni di Pontefice Massimo, indossa di già la toga pretesta, e mette in capo il galero sacerdotale, tiene in mano la bacchetta sacra e indice la preghiera e i sacrifizii. […] I Sacerdoti quindi si avanzano più d’accosto all’ara e su patere d’argento, fatte le abluzioni di vino e di latte, xzxv rivolgendosi agli astanti gl’invitano in siffatto modo a muover preghiera alla Diva. O Madre Cerere, tu che divinamente sei assisa fra le divinità dell’Olimpo, rivolgi pietosi gli sguardi su questa terra, a te tanto prediletta, noi e le generazioni  future qui religiosamente, per tutte le epoche, celebreremo i tuoi santi misteri. Mandaci la pace e la quiete fra gli uomini, caccia da questa terra il livore della discordia e della ribellione brutale. [… nel Tempio] tutto è pronto per la solenne funzione, il cultrario sta col maglio preparato, in ordine sono i coltelli del sacrifizio, le patere o piatti concavi, l’acerra o cassetta degli incensi, l’aspersorio di crini di cavallo per fare l’abluzione delle vittime. Prima dell’ora decima del giorno i sacrifizii sono di già terminati; un terzo delle vittime è stato bruciato in olocausto alla Diva e agli altri celesti; gli altri due terzi sono stati divisi tra i sacerdoti e gli astanti. Gli auruspici hanno divinato fra le interiora delle vittime, che gli Dei propiziati hanno bene accolto il sacrifizio, e la pace e la tranquillità sarebbero ritornate nell’isola desolata. […] .” (9)

BIBLIOGRAFIA

  1. Renato del Ponte – Dei e miti italici , p. 53.
  2. Festo – 144,146, L.
  3. Macrobio – Saturnalia – 1,16.17.
  4. Francesco Ferrara – Storia di Catania – rist. anast. Dafni Editrice – Catania 1989 – p. 22 .
  5. Girolamo Pistorio -  Lettera al signor Principe di Torremuzza – Opuscoli di autori Siciliani, tomo XV, p. 186 – ( Gronovium T. 7.f. 34. Edit. Venet.).
  6. Pietro Carrerra – Monumentorum historicorum urbis Catane – Lugduni Batavorum 1550 -  pp. 24-25 – lib. I – cap. III – VII.
  7. Domenico Gaspare Lancia Di Brolo –Storia della Chiesa in Sicilia – presentazione di Enzo Sipione – Editrice Elefante – Catania 1979 – vol. I – p. 23.
  8. Ettore Pais – Alcune osservazioni sulla storia e sulla amministrazione della Sicilia durante il dominio romano, p. 177.
  9. Tamburello Giuseppe – La Sicilia del II secolo avanti l’era cristiana – dal 136 al 100 a.C. – Acireale 1896 – pp. 43 – 49.

martedì 21 dicembre 2021

Acquedotto romano S. Maria di Licodia-Catania, individuato l’ultimo pozzetto ancora esistente?

I pressanti impegni che negli ultimi anni mi sono derivati dalla preparazione del libro “ Il Ritorno Degli Aragonesi In Sicilia”, pubblicato da Algra Editore e del libro “ Il Rugby A Catania – Dal suo esordio nel 1934 fino al 1951”, edito dal CUS Catania, mi hanno distratto dal pubblicare un articolo che stavo preparando quando mi sono occupato delle ricerche sull’acquedotto romano che dall’odierna Santa Maria Di Licodia portava l’acqua all’odierna Catania e di cui i resti di un tratto si trovano sul territorio di Motta Santa Anastasia, come ho già documentato in un mio precedente articolo che richiamava i lavori della Professoressa Lagona e dell’Ingegnere Nicolosi. In quel periodo su queste tematiche mi confrontavo spesso con un mio amico, l’Architetto Santo Gulisano di Motta Santa Anastasia, che mi invitò a osservare un pozzo che si trovava in un terreno nei pressi di una sua proprietà in un sito vicino al confine tra il territorio di Motta Santa Anastasia e il territorio di Belpasso, in contrada Porticatazzo, che sembrava essere molto antico. Ci accompagnò a visitare il pozzo il padre dell’Architetto Gulisano, oggi purtroppo scomparso, il signor Giuseppe Gulisano che viene ritratto nella foto che segue vicino al pozzo.

Evocando i suoi ricordi di gioventù il signor Giuseppe Gulisano ci raccontò che in gioventù era sceso all’interno di quel pozzo diverse volte ( la prima volta quando aveva 19 anni ) per prelevare dell’acqua per uso alimentare, e che alla base del pozzo, che lui stimava avesse una profondità di circa 12 metri, si aprivano due gallerie che, sulla stessa linea, andavano in direzioni opposte.

La struttura del pozzo in questione è abbastanza simile alla struttura di pozzetti che facevano parte dell’acquedotto Cornelio di Termini Imerese, di cui l’immagine viene riprodotta nel disegna sottostante.

sabato 27 novembre 2021

Come Bernardo Cabrera tentò di rapire Bianca di Navarra

Dopo la morte del Re Martino il Giovane, marito di Bianca di Navarra, Bernardo Cabrera per perseguire il suo progetto di sposare Bianca di Navarra, Il Cabrera insegue Bianca di Navarra fino a Palermo dove si era recata dopo che la Regina aveva trovato momentaneo rifugio a Castronovo, sempre inseguita dal Gran Giustiziere. L’ultimo tentativo di rapire la regina Bernardo Cabrera lo effettua il 18 ottobre 1411 a Palermo nel palazzo dei Chiaramonte nella piazza della Marina, palazzo detto Lo Steri, sito scelto dalla Regina privilegiando per poter avere vicino una rapida via di fuga costituita dalla vicinanza al mare e dalla galea di Raimondo Torrellas ormeggiata al porto. Le vicende precedenti al tentativo di rapimento di Bianca di Navarra avevano avuto luogo durante la guerra scoppiata tra le fazioni che sostenevano Bianca di Navarra e Bernardo Cabrera, nel corso della quale si registrano una serie di episodi che hanno lasciato vaste ed importanti tracce nei documenti storici nelle cronache del tempo che riguardano la fortezza e la prigione di Motta Santa Anastasia dove il Cabrera venne rinchiuso dopo la sua cattura. Il primo episodio che riguarda la Motta di Santa Anastasia, durante il periodo che va dal 1410 al 1412, avviene nel 1410, allorchè Bernardo Cabrera sottrae al Regio Demanio rappresentato da Bianca di Navarra, il controllo del castello della Motta di Santa Anastasia, posto sotto il controllo militare delle truppe dell’Ammiraglio di Sicilia Sancho Ruiz de Lihori: nel castello della Motta di Santa Anastasia, nel 1410, erano ancora tenuti prigionieri i nobili genovesi catturati dalla flotta aragonese-siciliana durante la guerra di Sardegna. Bernardo Cabrera conquista il castello della Motta e libera i prigionieri genovesi, in attesa di essere riscattati da Genova; ponendo in tal modo un forte presidio contro la città di Catania. Il 28 dicembre 1411: “… giorno della festa dei Santi Innocenti, l’ammiraglio Sancio Ruiz entrò nascostamente a Catania, dalla parte delle mura che viene chiamata Porta Nuova, occupò la città in nome della Regina Bianca e cacciò dalla sede del vescovado, dove si era riparato, il Filangeri che, insieme alla moglie e ai suoi accoliti, andò a rifugiarsi nella rocca di Motta Sant’Anastasia presso il Cabrera. Non molto tempo dopo, anche la rocca di Motta cadde in possesso di Bianca e Sancio trasse via il Cabrera prigioniero, …”. (1) Nel corso del 1411 il castello della Motta di Santa Anastasia sarà riconquistato dalle truppe dell’Ammiraglio Sancho Ruiz de Lihori e, nel 1412 sarà il luogo dove Bernardo Cabrera, catturato dall’esercito di Bianca di Navarra nell’agosto del 1412 a Palermo, sarà tenuto prigionieri per diversi mesi, prima di essere trasferito prigioniero nel Castello Ursino di Catania: la cattura di Bernardo Cabrera fece così venir meno l’organizzatore dell’opposizione a Bianca di Navarra e determina la fine di quasi tutte le ostilità sul territorio siciliano. Il 29 dicembre 1411 Sancho Ruyz de Lihori  rioccupa Catania, dove il Cabrera aveva posto come Governatore Giovanni Filangeri. Mentre accadevano questi avvenimenti in Sicilia, in Aragona il padre di Bianca di Navarra interviene nella riunione delle Corti dei tre Regni Spagnoli chiedendo un intervento per frenare la violenza del Cabrera contro la figlia Bianca: gli ambasciatori dei tre Regni Spagnoli sbarcarono a Trapani il 12 gennaio 1412 ed inviarono Pietro Martini da Bianca di Navarra con la richiesta di far arrivare loro la galea di Pietro Torrellas per accompagnarli presso di lei a Palermo. Il Cabrera avvisato dell’arrivo degli ambasciatori e conscio delle possibili conseguenze della loro missione, tenta di mettere gli stessi di fronte alla situazione di fatto costituita dalla cattura di Bianca di Navarra. Nella notte tra il 13 ed il 14 gennaio 1412 il Cabrera tenta un ultimo colpo di mano e cerca di rapire nuovamente Bianca: questa, avvisata dell’arrivo del Cabrera a palazzo Steri, fuggì celermente dal palazzo con le sue damigelle, imbarcandosi sulla galea di Raimondo Torrellas che si trovava li vicino. Entrato in Palermo il Cabrera irruppe con i suoi a palazzo Steri dove pensava di trovarvi Bianca; ciò che fece il Cabrera, raccontato dal Maurolico, viene ritenuto veritiero dal Di Blasi che lo riferisce: “ Ma quali fossero queste debolezze; e quali azioni da pazzo lo racconta il Maurolico scrittore, cui non può darsi traccia di menzognero. Riferisce egli, che entrato nella stanza, dove la Regina dormiva, e avendo trovato il letto sconvolto, ed ancora caldo abbia detto: se ho perduta la pernice, rimane nelle mie mani il nido.”
Ubi cernens cubile turbatum, quate solet ad subitum timore delinqui, perdicem,  ait, perdidi, sed nidum teneo. Soggiunse poi cose incredibili ed orrende, volendo, che spogliatosi delle sue vesti si coricò nelle tiepide piume, fiutando come un cane da caccia colle narici all’odore della preda: Protinusque depositis vesti bus, lectum, ut adhuc erat tepidum, subit, et per totum feraqe se odore delectari.
Così elegantemente si esprime questo dotto messinese. Sembra però inverosimile, che un uomo di età provetta, di cui avevano tanto conto i nostri Sovrani ed specie Martino il Vecchio, e che era investito dalla Suprema Magistratura di Gran Giustizier e di tutto il Regno, abbia potuto cadere in simili debolezze, ne può altrimenti credersi vero questo fatto, se non supposto, che gli abbia dato di volta al cervello. Quel che è certo si è, che egli saccheggiò il palagio, dove abitava la regina Bianca; e s’impossessò di tutte le gioie, e mobili di questa principessa, che furono di poi valutate dieci mila fiorini …  .” (2)
Bibliografia
  1. Amico V.- Catana illlustrata- vol. II, pp. 179-180.
  1.  Di Blasi Giovanni Evangelista – Storia del Regno di Sicilia dall’epoca oscura e favolosa sino al 1774 - p. 605.

lunedì 1 novembre 2021

Dante trattava versi divini, iu inveci trattu vini diversi

Nino Puglisi, che fu Bibliotecario Comunale a Motta Santa Anastasia, dice di Carmunu Carusu, nella sua introduzione al libro di poesie di Carmunu Carusu: “ Abitava proprio nella piazza principale di Motta, ove la moglie gestiva una piccola rivendita di generi alimentari e nei giorni di riposo veniva chiamato dalla folla per recitare qualcosa. E il poeta – ‘stantaniu – era la, sul balcone, ad accontentare, perché chi vive in mezzo al popolo non può e non deve esimersi dalle richieste di esso. Per il popolo ‘ poeta’ equivale a ‘ uomo saggio ’ che ha sempre qualcosa da dire di bello e di utile, in quanto il poeta ammaestra dilettando. Il poeta catanese dialettale Scandurra lo chiamava  Maestro? E si esaltava parlando di lui e diceva che Caruso era ‘ Ginuinu’, cioè non ‘ Tuccatu né da camula e né da rannula’ alludendo a quei poeti che, oltre ad essere scopiazzatori delle cose altrui, scrivevano senza ‘ Sintimentu”. Alcuni aneddoti della sua vita sono stati raccontati da Mariano Foti nel suo libro “ Elysia” e la cui narrazione riportiamo integralmente. Dice Mariano Foti nel parlare del rione catanese Zia Lisa: “ Non possiamo qui tralasciare un personaggio molto apprezzato nel nostro rione ‘ u zu Carmunu ossia Carmelo Caruso ( 1840-1914) un dei più quotati poeti dialettali. Dalla Natia Motta Santa Anastasia scendeva spesso alla Zia Lisa e, quale modesto mediatore di vino all’ingrosso, trattava con fondacari e vinai. Dal suo commercio però non riuscì mai a ricavare gran che, e visse sempre in umiltà una vita piuttosto contadina. Per questo rimase poeta. Di intelligenza veramente elevata, fu fonte inesauribile di versi siciliani. In tutte le circostanze si dava a improvvisare a getto continuo e molti correvano ad ascoltarlo. Tra le sue composizioni poetiche ricorderemo: ‘ ‘U nespulu’, ‘ I Zappuliaturi’, ‘ I Quattru elementi’, ‘ A Leva’, ‘Lu Ucceri’, ‘ I Dubbi’,. Si aggiungano i poemetti religiosi: ‘ Morti e Passioni di Nostru Signuri Gesù Cristu’, ‘ San Giovanni’, ‘ Sant’Anastasia’, ‘ A Madonna ‘o Carmunu’, e altri. A un tale che che gli disse: ‘ Zu Carmunu vui siti n’autru Dante’, dopo una sonora risata rispose con sapiente acutezza riferendosi al suo mestiere di ‘ vinaloru’: ‘‘A DIFFERENZA È CA DANTE TRATTAVA VERSI DIVINI, IU INVECI TRATTU VINI DIVERSI”. Una volta, suo malgrado, fu spinto a uno scontro con Mario Rapisardi. Questi, che insegnava letteratura italiana nella nostra Università, venuto a sapere che a Motta c’era un autentico poeta, con un suo alunno gli mandò a dire che l’avrebbe incontrato con piacere. Carmunu rispose con uno dei motti più espressivi del nostro repertorio popolare: ‘ Cu beni mi voli, ‘casa mi veni’. Rapisardi, fortemente offeso, gli inviò un biglietto oltraggioso con la scritta: ‘ Fango sei’. Il Caruso immediatamente  ribattè:

‘Fangu fu Adamu e fangu semu tutti,

e di fangu fu nata la virtù;

è tuttu fangu chiddu ca s’agghiutti,

comu di fangu fusti fattu tu !'.

Carmunu Carusu nella foto tratta dalla seconda edizione del libro di Nino Puglisi che ha curato la raccolta delle sue poesie, pubblicata nel 1997 a cura dell’Associazione Casa Normanna Rione Vecchia Matrice.

Critolao il più famoso sarto di Sicilia

Gaius Licinius Verres ( Verre) venne nominato Pretore di Sicilia nel 73 a.C. ed usufruendo di una imprevista proroga del suo mandato dovuta ...