domenica 31 ottobre 2021

Rituali funebri nobiliari nella Catania del ‘500

L’imminente ricorrenza dei “Morti” ci fornisce l’occasione per richiamare alla mente le procedure funerarie che nei secoli passati venivano attivate allorché moriva qualche importante personaggio di Catania come, in questo caso, il Viceré. Consultando la “Cronaca Siciliana del secolo XVI”, di Vincenzo Epifanio e Alberto Gulli ripercorriamo, quindi, le procedure funerarie che vennero riservate nel 1535 al Viceré Don Ettore Pignatello, testimoniata da una lettera di Pietro Di Vivicito.

Ogi ad hura di vinti huri cum suntuusi exequii fu seppellutu lu signuri Vicerré Don Hettore Pignatello, non sencsa lacrimi di chi lo mirav, et per li signorie vostre intendiri lu modu di lo exequio lo scrivo. Morto chi fu apersiro il corpo et livarochi li interiuri tutti et lo cori; lo implero di cauchi et certi altri pulviri et cuserolo, per supra la testa chi levaru la medulla, como si soli fari a soi pari, misirolo intro la sala di lo castello et illa li donni tinniro visito, sencsa pero altro intrari in castello chi alcuni donni principali et lo signuri conti di Borrello, so nipoti, figlo di so figlo, et li signuri soi frati sindi andaro intro la Nunciata, undi ancora era lo signuri conte di Caltanissetta et li autri signuri e genti di palacso cun loro signore, lo signuri  Logotenenti, lo signuri conti Di Luna, li signuri Iudichi di la Gran Corti, lo signuri Canchilleri, li signuri Thesaureri, Mastri Racionali, et tucti altri officiali di curti, cum li gramagli dati in la Curti. Vinni poi la cita, lo signuri Preturi et Iurati cun tuctu lo Magistratu vestuti tutti di gramagli fini pagati per la cita, et multi altri cavaleri, servituri et effettati di sua illustrissima signoria. Niscio lo corpo so di lu castello supra una vara cum una cutra di borcato ricio foderata di sita carmixino, dui cuscina di lu medesimi borcato; ipse vestuto di abito di Santo Francisco, supra la testa sua birritta di velluto cun uno chirco di oro supra a la ducali; a la sua destra uno stocco dorato cum fodaro di borcato, a la sinistra la sua bacchetta deorata, a li pedi li spiruni dorati. Quanto ancora signorili e aspetto di gra principi tenia ! Sequianolo tri a cavallo cum li gramagl et li cappucci in testa, et li cavalli corpertati a nigro sino in terra, portavano altri lancii li barderi supra li spalli chi pendiano et alcsando la terra di damasco carmixino, di una banda teniano le armi di Pignatello, all’altra la imprisa, quasi era una ancora grandi bianca cum uno mutto “ A Bon Ponto”, et sutto lu scutu di l’armi uno pulituri di spati forbixino li spati cum scritto: “ U Mundemini”, ad quali sequiano lo Pretruri et iurati et li altri ufficiale del Magistato a dui a dui, appresso lo signuri conte di Borrello et altri signuri visitusi acompagnati di cavaleri visitusi ancora et una turba poi di loro cortixani et servituri, chi fassi stima passari chento sissanta gramagli, et tutti pianendo amaramenti et cum rispetto. Innanti la vara uno homo di armi supra un corseri vestito  ipso et cavallo di damasco carmixino cun uno imperial stendardo di carmixino damascu, tutto frixato di oro, et lo scuto imperiali cum li armi reccamati lavorati et la impresa di lo imperaturi di lavreni vellus et li colonne di hercules cum lo mutto ‘Plus Ultra’ dudichi vari di intorchi allumati, sei per una; cruchi quaranta, et tutti l’ordini di li religioni etli canonachi di la Matri Ecclesia, andandosindi a Santa Maria di l’Angeli Grampia di Sant’Antoni, societati di Iesu. Farrassi di questa a trii orni lo obsequio, como esti di costuma di la cita. Presidenti  lassao lo signuri Marchisi di Yachi.”

mercoledì 18 agosto 2021

Alcuni dei Bongiovanni ed una Bongiovanni nella storia di Sicilia

Nella Storia della Sicilia capita, di tanto in tanto di ritrovare qualche appartenente alla stirpe dei “Bongiovanni”, il cui capostipite è da ricercare nei comandanti dell’esercito Bizantino già nel corso del IX secolo d.C.; altri Bongiovanni li riscontriamo, nei secoli successivi, come di seguito vengono elencati.

Secolo XIII

Bongiovanni De Omobono: Notaio palermitano che richiese alla Regina Costanza nel 1283 di disporre un’inchiesta sui proventi di un molino nella Terra di S. Fratello, sospettai di frode; conseguentemente alla richiesta di Bongiovanni De Omobono la Regina Costanza nel 1284 da l’incarico ai Maestri Secreti di condurre un’inchiesta. (1)

Bonjohannes De Notho viene coinvolto in una cospirazione contro il re [Alaimo da Lentini era a tempo Maestro Giustiziere] assieme a Gualterio Di Caltagirone, Tano Tusco, Baiamonte Di Eraclea, Giovanni Di Mazzarino, Adinolfo Di Mineo ed altri. (2)

Notaio Bogiovanni di San Fratello. (3)

Il cognome Bongiovanni viene documentato a Paternò nel XIII secolo.

Secolo XIV

Leonardo De Bongiovanni: Nel 1347 Ricopre il ruolo di Procuratore del Conte Blasco Alagona, signore di Catania. (4)

Bongiovanni di Demetrio giudice in Caltagirone per l’anno 1355-1356. (5)

Filippo Bongiovanni della terra di S. Filippo D’Argirò. (6)

Secolo XV

Secolo XVI

Giambattista Bongiovanni: Barone del Grano e Segretario del Regno di Sicilia.

Secolo XVII

Giacinto Bongiovanni: Procuratore Fiscale della Gran Corte Siciliana nel 1677.

La famiglia Bongiovanni è presente a Favara sin dal XVIII secolo.

Secolo XVIII

Luigi Bongiovanni: Storico, scrisse tra l’altro il testo “Guida per le antichità di Siracusa", pubblicato a Palermo nel 1792. In realtà Luigi Bongiovanni era uno pseudonimo usato da Francesco Di Paola Avolio. (7)

Bernardino Bongiovanni: incisore.

Bongiovanni Pellegra. - Nacque a Palermo ai primi del sec. XVIII da Vincenzo, un mediocre pittore dalla vita errabonda, dal quale venne condotta ancora fanciulla a Roma, dove apprese musica, danza e pittura, come affermerà più tardi ella stessa nell'opera che la rese famosa ai suoi tempi: Risposte a nome di Madonna Laura. Era frutto di un paziente culto delle belle lettere e della poesia petrarchesca, che le valse la stima della colonia dell'Accademia degli Arcadi di Palermo, nella quale fu accolta col nome di Ersilia Gortinia. Poche sono le notizie sulla sua giovinezza. Andò sposa all'avvocato Iacopo Rossetti, dal quale ebbe una figlia, Marianna. Godé fama di donna virtuosa, tanto da essere lodata nel Cicerone del Passeroni. Raggiunse una notevole fama letteraria negli ultimi quindici anni della sua vita, allorché le lodi tributatele dal Quadrio e dal Crescimbeni trovarono una eco nella nativa Sicilia e molti letterati dell'isola si tennero in onore di sottoporre alla sua attenzione le loro opere per averne consigli e giudizi, come il marchese Casimiro Drago per la traduzione delle Bucoliche di Virgilio e il poeta giocoso Bernardo Bonaiuto che, richiesto alla B. un parere sulle sue composizioni, ricevette una lunga risposta in versi. Un successo personale raccolse la poetessa il 14 giugno 1764 in occasione dell'adunanza tenuta dagli Arcadi nella villa romana del cardinale Alessandro Albani per l'acclamazione di Giuseppe II re dei Romani. La sua notorietà resta legata alle Risposte a nome di Madonna Laura alle Rime di messer Francesco Petrarca, pubblicate a Roma nel 1762e l'anno successivo a Milano. L'opera non si segnala in alcun modo per originalità di intenti, costituendo la poesia della B. una irrilevante testimonianza della fortuna del Petrarca nel Settecento: rappresenta tutt'al più una curiosità il constatare con quanto impegno la rimatrice riesce a costruire le "risposte" attenendosi fedelmente agli schemi metrici e alle stesse parole-rima del modello. Morì nel 1770(8)

Giacomo Bongiovanni: scultore di Caltagirone, espresse al meglio la sua arte nella realizzazione di ceramiche dove seppe imprimere l’autentica espressione di stati d’animo; le sue opere sono presenti nel Museo Nazionale di Palermo.

Salvatore Bongiovanni: scultore di Caltagirone.

Secolo XIX

Secolo XX

Giuseppe Bongiovanni: Dipendente del Comune di Misterbianco, rappresentante sindacale CISL e fondatore del partito Forza Italia a Misterbianco; tifoso dell’Inter.

Bibliografia:

  1. Giuseppe La Mantia – Codice Diplomatico dei Re Aragonesi di Sicilia  - vol. I ( 1282-1290) – Palermo 1917 –  p. 124 – LX – sett. 1283 – ag. 1284, ind. 12à.
  2. Gregorio Rosario – Biblioteca scriptorum qui res in Sicilia gestas sub aragonum imperi retulere – Bartolomeo Di Neocastro – Historia Sicula -  tomo primo – Palermo 1791 – p. 91 – BonJohannes De  Notho viene coinvolto in una cospirazione contro il re [ Alaimo da Lentini era a tempo Maestro Giustiziere] assieme a Gualterio Di Caltagirone, Tano Tusco, Baiamonte Di Eraclea, Giovanni Di Mazzarino, Adinolfo Di Mineo.
  3. Elisabetta Lo Cascio – Il Tabulario della Magione di Palermo ( 1116-1643) – Roma 2011 – p. 148 – doc. n. 180 [ 1284] 11 ottobre – notaio Bogiovanni di San Fratello.
  4. Antonio Giuffrida – Il cartulario della famiglia Alagona –Palermo 1978 –  p. 40 – Leonardo De Bongiovanni, Procuratore del Conte Blasco Alagona ( 7 maggio 1347 ).
  5. Elisabetta Lo Cascio – Il Tabulario della Magione di Palermo ( 1116-1643) – Roma 2011 – p. 148 – doc. n. 180 [ 1284] 11 ottobre – notaio Bogiovanni di San Fratello.
  6. Archivio S. Com. CT – Regesti Real Cancelleria – vol. I – r.n. 241 dell’1 gennaio 1396 – Filippo Bongiovanni della terra di S. Filippo DArgirò.
  7. Narbone Alessio – Storia letteraria della Sicilia – vol. III - Palermo 1857 –  p. 260 – Luigi Bongiovanni  descrive chiese e badie di Cefalù.
  8. Luciano Marziano – Dizionario Biografico degli Italiani – vol. 12 – 1971-

giovedì 1 luglio 2021

Alcuni aspetti del dialogo non ufficiale tra il PCI e Salvatore Giuliano

Nel corso di una prima concitata seduta al Senato in data 26 ottobre 1948 si era registrata una vivacissima polemica tra il Ministro dell’Interno Mario Scelba e il senatore del P.C.I. Girolamo Li Causi, a seguito delle affermazioni di Scelba che accusava il P.C.I. ed in particolare il senatore Girolamo Li Causi di convivenza con Salvatore Giuliano e la sua banda; Li Causi, nel definire Scelba uno spudorato mentitore, aveva invitato il Ministro dell’Interno a mostrare le prove di quanto affermato. Scelba aveva risposto a Li Causi nella seduta della Camera dei Deputati del giorno seguente, 27 ottobre 1948, per produrre le prove, consistenti in alcune lettere intercorse fra alcuni esponenti del P.C.I. siciliano e Salvatore Giuliano. Non sappiamo se le lettere prodotte da Scelba alla Camera dei Deputati fossero autentiche o no, sta di fatto che vennero pubblicate su diversi giornali fra cui il giornale “La Sicilia” giovedì 28 ottobre 1948; essendo, pertanto, rese pubbliche riportiamo il testo di una di esse, quella scritta da Gaetano Palazzolo (che si firmava Mimmo Vitale) a Salvatore Giuliano, affidando ai lettori la valutazione del contenuto ed il giudizio sulla sua autenticità o meno. Il testo della lettera pubblicata dalla Sicilia contiene molti, vari ed evidenti errori che non ho corretto, preferendo riportare integralmente il testo; è il caso, comunque, di evidenziare che dall’esame della lettera sembrano emergere in alcune parti una competenza linguistica che stride con altre parti della stessa che sembrano scritte da un semianalfabeta.

“Caro Salvatore, le idee dell’uomo sono individuali e non comuni, però rilevando le realtà delle cose possono essere nell’interesse di tutti, io nacqui con sentimenti apertamente estra solo perché dal 1944 ho lottato contro gli agrari sempre nell’interesse del popolo. Lottato mai materialmente ma intellettualmente, fui un membro di quella mafia reazionaria, e dall’epoca che compresi che questa mafia era contro il popolo, cioè contro i poveri, feci battaglia accanita contro i ricchi e contro la mafia reazionaria, di fatto, nell’epoca che cito ’44, ebbi l’occasione di conoscere te, fu proprio ala casa di Bracco. Ammirai il tuo operato quale figlio del popolo lavoratore nel bene, nell’interesse dei poveri. Feci allora propaganda in tuo favore, ti elevai di quello che potetti, sinceramente dicendo di avere nato l’uomo del popolo e con l’aiuto e l’interesse di tutti si avrebbe potuto arrivare ad annientare i signori che tanto ci hanno fatto soffrire. Specialmente a me che conto 41 anni e fui nei tempi del fascismo 10 anni in carciri. Secondo occasione di vederti fu alle case di Gambino quando ti presentasti a mio fratello cercando di fare massa cioè leva sopra la monarchia per proteggere quelle agrarie che ci hanno avvilite, quei signori baroni che in Sicilia sono stati padroni anche delle donne altrui, apertamente fu la risposta, ragione per cui agrarie e monarchici non possono essere affatto nemici di fatti ecco la prova. La Mafia di Cinisi a’ sempre giocato col popolo, e cerca ancora oggi in un’era di luce di fare sorgere la monarchia, di questa mafia, anni fa mia amica, oggi sono addettato al disprezzo e fatto segno a varie fucilate chiamandomi sbirro, oltre ancora mi fecero condannare a 14 anni di reclusione in contumacia, e mi trovo tra le grinfa dei baroni. Quelli che anno protette della polizia e della mafia agraria e reazionaria per amici  quella mafia onesta e sincero, quella che difende il popolo, i poveri i derelitti, gi oppresse, consistente nel PCI. Nell’estate scorsa, o seguito il tuo operato, specie con quella lettera al compagno Li Causi Girolamo, di allora che fui messo illibertà ti ho scritato attentamente, o visto che non sei un monarchico, che non sei un reazionario, ma un uomo onesto, vero figlio del popolo e degno del popolo. I personalmente o interceduto nei tuoi riguardi presso il compagno Colajanni, non escluso la forte pressione della compagna Iolanda Varvaro e il compagno Nené Varvaro. Forse tutti ti hanno promesso, ma non ancora con garanzia, solo io tengo il segreto e te lo svelo. Sono contento del tuo operato in Terrasini, sono soddisfatto di vedere un figlio del popolo fra gli uomini onesti. Questo è il mio segreto ricordalo che si avvicina il giorno della battaglia definitiva, ricordati che sei vicino al 18 aprile, giorno di festa e di vittoria per il popolo italiano, giorno di resurrezione e di giustizia per tutti quei poveri che tanto abbiamo sofferto, giorno di pace e di libertà, giorno di luce e di prosperità per tutto il popolo, difatti siamo sicuri di portare vittoria, quale tutti sappiamo che Pescara insegna. Salvatore, non puoi immaginare quale affetto e solidarietà posso avere su te, ti credevo un uomo perduto, oggi vedo con il tuo cambiamento l’uomo salvo, cioè quell’uomo che ho sinceramente stimato con affetto di fratello. Io sono povero, con circa 200 mila lire di debito, non chiedo niente a nessuno ogni tanto la regionale mi fa qualche dono. Io vivo a Palermo, svolgendo la propaganda nell’interesse di tutti i poveri, mia moglie e mia figlia vivono a Terrasini in via Vitt. Emanuele 51. Di rado ci vediamo ti prego di scrivere un biglietto a questo indirizzo per assicurandomi che sei veramente Salvatore G., cerca di rispettare tutti i tuoi specie quelli che sono in carceri, tante anno confessato forse quello che non hanno fatto, vogliate bene lo stesso, perché poverini anno sofferto sotto la pressione della polizia. Io posso considerarle ragione che sono stato seviziato. Di queste canaglie e so quello che fanno. N.B. Sento che sei in compagnia con Giacomino. Debbo dirti che tuo cugino Turi ce’ la pure con me, non per ragione di partito ma per altri fatti, comprendo benissimo che tutto ciò è opera del Patataro Mezzo Cartoccio e Funciazza. Sarebbe necessario che tu ti interessassi con Giacomino finché quelle notizie che diedero a Turi, le ritirano o pure dirle la verità. Io sono innocente di quanto mi vogliono accusare Sig. Papataro non vuole finirla e forse che stia zitto, tutto quello che tu deve fare dirgli a Giacomo di scrivere a suo cugino di chiedere bene informazione e temporaneamente lasciarmi tranquillo, poi parlare con Funciazza e dirgli che quello che egli fece sapere non è giusto perché occorrono le prove. Quinte Peppino affido a te questa situazione delicatissima è fiducioso che al più presto ne’ avrò notizie con buon esito. Giacomo può scrivergli immediatamente finché si viene a una soluzione immediata. Dirgli a Giacomo che non sono quel tale che tante pensano, dirgli che nel mio partito ci sono uomini di cuore, dille che Varvaro è dei nostri che è parecchio che abbiamo parlato anche per loro e che il tempo impara e presto verranno cose belle per tutti. Io personalmente fui da Li Causi esponendo ogni situazione, grante furono le promesse senza interesse ma solo per il bene di tutti vi sono nuovi vie per tutti e per tutte. Dammi risposta al più presto, salutami a Gioa. A te un abbraccio tuo.

Mimmo Vitale.

Nel suo intervento in Parlamento Li Causi, nel far notare come nessuna delle lettere prodotte era attribuibile a Salvatore Giuliano o a se stesso, mise in evidenza come i risultati elettorali nella zona controllata da Salvatore Giuliano avessero dato la maggioranza assoluta alla Democrazia Cristiana, dimostrassero un collegamento tra il Partito di Scelba ed il bandito. Per dimostrare il proprio non coinvolgimento nei rapporti con Salvatore Giuliano Li Causi chiese l’istituzione di una commissione d’inchiesta che facesse luce sulle lettere mostrate da Scelba al Parlamento.

domenica 6 giugno 2021

Catania, 7 ottobre 1884: una tromba d’aria devasta la città

 Il 7 ottobre 1884 una Tromba d’Aria, partita dal territorio di Motta Santa Anastasia devastò Catania procurando danni enormi e mietendo vittime tra la popolazione della città capoluogo di provincia; su questo disastroso evento in data 12 ottobre 1884 il Prof. Orazio Silvestri scrisse una relazione che venne pubblicata sul Corriere Di Catania il 21 ottobre. I contenuti tecnici della relazione del Prof. Silvestri furono, successivamente, contestati dal Prof. Damiano Macaluso in una relazione presentata all’Accademia Gioenia in data 23 novembre 1884 a cui seguì una relazione del Prof. Silvestri che conteneva le osservazioni sui contenuti della relazione del Prof. Macaluso, presentata all’Accademia Gioenia in data 28 dicembre 1884. Le relazioni dei due studiosi si basavano principalmente sui contenuti barometrici che aveva caratterizzato la Tromba D’Aria, mentre una accurata descrizione degli effetti e dello svolgersi del percorso della Tromba D’Aria vennero relazionati in uno scritto del Prof. Salvatore Bruno, pubblicato nel 1884, dal titolo “ La Tromba Terrestre del 7 ottobre 1884 in Catania”. In relazione al luogo in cui si formò la Tromba D’Aria il Prof. Bruno così scrive: “[…] ho saputo dal sig. Giuseppe Fassari, che trovavasi in Motta S. Anastasia, e da una relazione fatta dal nostro Esattore delle imposte, che tornava in ferrovia da Palermo, ambidue attestanti di aver veduto il primo sorgere della meteora, che essa si formò in vicinanza della stazione di Motta, donde poi giunse al lido d’Ognina.” Il Prof. Bruno ebbe modo di osservare personalmente la forza distruttrice della Tromba D’Aria che riportò nel suo scritto: “ Credo quindi utile, che anche io, il quale potei osservarla, descriva colla maggiore esattezza possibile la terribile Tromba Terrestre, che il giorno 7 ottobre 1884 danneggiò tanto la fiorentissima Catania. Era io alla mia piccola villeggiatura nella nuova borgata della Guardia, distante circa quattro chilometri da Cibali, un tre chilometri dal Borgo, e quasi precisamente due chilometri da Picanello e da Ognina, luoghi danneggiati dalla tremenda meteora. […] Verso le dodici meridiane dense nuvole si congregarono a nord-ovest, tuoni sordi tirarono l’attenzione a quella contrada, e si ebbero tutti quei segni, che sogliono aver luogo quando si desta qualche temporale. Ne quei segni fallirono. Veramente il temporale fu, e ad un venti chilometri da Catania, dove giungeva l’estremo lembo delle nubi temporalesche, che lasciavan cadere goccie di rara pioggia. […] Circa l’una le nubi di nord-est si avanzarono in direzione di Catania, e verso il loro centro presero una tinta nera e minacciavano una violenta pioggia temporalesca. I tuoni erano ancora lontani, quando ecco ad un tratto, insieme con una non tanto forte scossa di aria, un terribile fragore scoppia nella direzione di sud-ovest, ed una enorme torre nera colla base inferiore al suolo e colla superiore al cielo si mostra terribilmente minacciosa, e comincia la sua marcia desolatrice verso nord-est. Fu in quel momento che il terribile mostro si presentò agli occhi miei. Dalla posizione relativa tra la direzione dove la meteora mi apparve ed i uoghi che immediata mentene furono colpiti, si vede anche graficamente, che essa non era ancora entrata nella sventurata contrada di Cibali. […] Quando essa giunse alla contrada Picanello parve di rallentare per un istante la velocità della sua corsa, che subito riprese, sinché giunse al lido d’Ognina.” Nel suo percorso la Tromba d’Aria non toccò il centro di Catania e, continua a raccontare Salvatore Bruno;[ fui ] contento, che Catania aveva scongiurato un grave pericolo,percè, dicevo a me stesso: se la meteora avesse preso di mira il centro della città, chi sa quanti uomini avrebbe distrutto e quanti palazzi abbattuti ? Ma la mia gioia non durò che pochissimo. Notizie da Ognina, notizie da Picanello cominciarono a farmi conoscere i danni già avvenuti, e che io da prima credei esagerati […].”  Salvatore Bruno prosegue la sua relazione accennando ai fenomeni magnetici, dell’energia sprigionata, elettrici e di calore associabili alla formazione delle Trombe d’Aria e, tornando a descrivere gli effetti della Tromba d’Aria su Catania, così prosegue: “ Le palazzine diroccate a Cibali, al Borgo, ad Ognina e specialmente quella dei signori Faro a Picanello, gli alberi sradicati dal suolo, i loro rami violentemente rotti ne fanno infallibile testimonianza. […] Osservate gli alberi colpiti dalla meteora, e li troverete semicarbonizzati, e le troverete affumicate, qua sicché siano state sotto l’azione di una combustione. […] Il cadavere della signora Chines senza alcuna lesione traumatica attesta azione elettrica. Il signor Lorenzo Lima ed un figlioletto della sventurata signora Chines riportarono sulla pelle una specie di tatuaggio, che pare fatto con ferri infuocati. Di tutte le case rovinate, le più radicalmente svelte sono quelle del signor Marchese a Cibali, e quelle dei fratelli Faro a Picanello. Ambedue erano munite di parafulmine. Quella però del signor Motta in Ognina, fu meno radicalmente distrutta, quantunque munita, si dice, di parafulmine. […] La più esatta osservazione che io potei fare della nostra tromba fu quella della sua dissoluzione. Giunta precisamente al lido d’Ognina, come sopra fu detto, la meteora si arrestò e a disciogliersi impiegò alquanto tempo. […] Ciò che ci è di notevole in questo arrivo ella meteora al mare si è, che uno sventurato pescatore ne restò vittima sulla barchetta che reggeva vicino al lido, ed il suo cadavere fu trovato senza alcuna lesione esterna. […] Queste tre borgate [ Cibali, Borgo, Ognina … ] La meteora le prese di mira, e colla velocità acquistata dalla stazione di Motta, investì prima Cibali. Non ci sono lagrime che bastino a deplorare adeguatamente la ruina di quel sobborgo. Graziosissime palazzine cinte da eleganti villini, fattorie inservienti a vasti poderi, abitazioni di gente industriosa, tuguri di poveri, tutto atterrò in un istante la meteora. Immensi giardini, vasti vigneti, annosi oliveti furono sdradicati, buttati a terra e irreparabilmente carbonizzati. Eleganti signore, industriosi cittadini, innocenti bambini morti sotto le rovine, o gravemente feriti e pericolanti della vita negli ospedali, o nelle proprie case, doe furono condotti, compiono il quadro della desolazione. […] Il Borgo presenta un quadro, che ha il suo riscontro nelle rovine di Pompei. Ivi non palazzine, ma grandi edifizj cittadineschi sono stati atterrati, e strappano le lacrime […]. La più dolorosa scena è quella di Picanello dove, come in principio fu detto, la meteora sembrò rallentare un poco la sua corsa.” Nella proprietà di due fratelli a Picanello: “ […] la meteora in men che si pensi, desola completamente il giardino, sdradica per così dire la casa, lasciando morti sotto le macerie la madre ed una giovine serva del figlio, a quale teneva tra le braccia un bello ed innocente bambino di sette mesi: […].” Ad Ognina le rovine di case, le devastazioni di campi, non sono inferiori a quelle di Cibali e del Borgo […].”

domenica 16 maggio 2021

Il mistero della morte di Salvatore Giuliano

Nella interminabile ricerca della verità in merito alle dinamiche che portarono alla morte di Salvatore Giuliano, o di quella “messinscena” che alcuni ipotizzano sia stata artificiosamente rappresentata per nascondere la verità, uno degli elementi che autorizzano ad ipotizzare che la versione ufficiale dell’accaduto non corrisponda alla realtà dei fatti deriva proprio dalla rilevazione delle sequenze e del numero di spari che venne affermata ma che venne smentita dai testimoni che ebbero modo di sentire li spari. Sin dall’epoca immediatamente successiva alla diffusione della notizia che Salvatore Giuliano era stato ucciso nel cortile dell’avvocato Di Maria, legale di fiducia di Giuliano, a Castelvetrano, furono in molti a sollevare dubbi sia sulla dinamica all’uccisione, sia sulla vera identità del morto mostrato dalla “Settimana INCOM n. 466 del 12 luglio 1950” nei cinema. Solo per citare alcuni degli innumerevoli articoli più recenti che si sono occupati di indagare sulla verità relativa all’uccisione di Salvatore Giuliano ricordiamo l’articolo di Nino Materi, pubblicato su “Il Giornale.it” il 7 gennaio 2019 dal titolo “70 anni fa la morte ( o quasi) di Salvatore Giuliano: 70 anni dopo si cerca ancora la verità”, l’articolo di Giulio Ambrosetti, pubblicato su “I Nuovi Vespri” il 5 luglio 2020 nonché l’articolo intervista realizzata da Angelomauro Calza e pubblicata sul suo blog, nella quale l’autore ha raccolto la testimonianza dell’infermiere che ha accudito l’avvocato Di Maria fino alla morte, Giuliano Zito, che ha raccontato che Di Maria, prima di morire, gli confidò che il cadavere mostrato non era quello di Salvatore Giuliano, bensì di tale Antonino Scianna. Ma qual’era la convinzione della stampa dell’epoca relativamente all’identità del morto mostrato alla pubblica opinione ed alle dinamiche reali della uccisione di Salvatore Giuliano (se era lui il morto)? Per cercare di appurarlo abbiamo operato una ricerca su alcuni giornali dell’epoca selezionando alcuni degli innumerevoli articoli dedicati a Salvatore Giuliano. Dalla rilettura di alcuni articoli pubblicati prima e dopo l’uccisione di Salvatore Giuliano, avvenuta il 5 luglio 1950 a Castelvetrano, sembrerebbero emergere inquietanti interrogativi sulla reale dinamica ufficiale della sparatoria nel corso della quale sarebbe stato ferito a morte la “Primula Rossa di Montelepre”. La ricostruzione ufficiale venne smentita dalle testimonianze di abitanti di Castelvetrano, tra cui alcuni autorevoli uomini dello Stato, che udirono e riportarono la sequenza degli spari che non coincideva con gli spari che vennero indicati nella versione ufficiale; circostanza che “costrinse” il colonnello Luca (da poco promosso generale) a motivare successivamente la mancata rilevazione del rumore degli spari, sostenendo (sic!) che “IL MITRA DEL CARABINIERE RENZI AVEVA IL SILENZIATORE”. In una intervista rilasciata dal generale Luca al “Corriere di Sicilia” pubblicata martedì 3 ottobre 1950, a seguito della domanda “Come mai gli abitanti del quartiere non udirono i colpi della sparatoria, in una notte d’estate, con tutte le finestre aperte ?”, lo stesso generale affermava che: “ […] il mitra del carabiniere Renzi che sparò era munito di silenziatore”. Alla luce di questa affermazione che appare poco credibile, ci si chiede, legittimamente ancora oggi, perché il mitra del carabiniere Renzi (e solo il suo) avesse il silenziatore e perché anche le armi degli altri tre che parteciparono (secondo la versione ufficiale) alla sparatoria non lo avessero. Questa incongruenza e le altre che già furono fatte rilevare da Tommaso Besozzi, per primo, ci inducono a chiederci quale sia stata la vera dinamica di quegli eventi, nonché la ratio e le finalità di quella che sembrerebbe, se tale fu, una “messa in scena” e che indurrebbero a ritenere che il luogo in cui fu mostrato il cadavere non fosse quello in cui Salvatore Giuliano (o chi per lui) venne ucciso, ne le modalità rappresentate nella versione ufficiale fornita dalle autorità. Le notizie pubblicate dalla stampa americana prima del 5 luglio 1950, data della presunta morte di Giuliano, e riportate dalla stampa italiana, in uno con affermate discordanze con i dati antropometrici di Giuliano (era alto 1,60 cm. o 1,80 cm. ? ), inducono ulteriormente a rafforzare oggettivamente il dubbio: il cadavere mostrato nel cortile dell’avvocato Di Maria a Castelvetrano era realmente quello di Salvatore Giuliano ? Ma torniamo alla dinamica ufficiale e non dell’uccisione di Giuliano. Fondamentale nelle valutazioni che sono state fatte nei diversi articoli e nei libri che hanno indagato su ciò che successe realmente nel cortile dell’avvocato Di Maria (ammesso che fosse stato quello il luogo in cui il morto mostrato nei filmati era stato ucciso) è l’articolo scritto da Tommaso Besozzi sull’Europeo del 16 luglio 1950: “Di sicuro c’è soltanto che è morto”, che realizzò una accurata indagine su fatti accaduti la notte del 5 luglio 1950 in via Mannone a Castelvetrano. Nel suo articolo Besozzi nel contrastare la versione ufficiale dell’accaduto, dice: “Chi è stato a tradirlo ? [ Giuliano] Dove è stato ucciso ? Come ? E Quando ? La grande maggioranza dei siciliani non crede alla descrizione ufficiale del conflitto nel quale ha trovato la morte Salvatore Giuliano. E anche noi dobbiamo confessare di avere inutilmente tentato di mettere d’accordo parecchi particolari di quella relazione con i luoghi, le circostanze, il racconto di chi quella notte vegliava a pochi passi di distanza dal tragico cortile in cui si è svolto l’epilogo del dramma od è stato svegliato dal fracasso delle fucilate. Tutto ciò si chiamerà forse cercare il pelo nell’uovo, ma l’esame delle incongruenze, dei punti oscuri, dei dubbi che inevitabilmente nascono nella mente di chi abbia tentato di ricostruire la scena non cesserà per questo di essere interessante. A Castelvetrano, alle 3 e 15 del 5 luglio, il capitano Perenze, il brigadiere Catalano, i carabinieri Renzi e Giuffrida (dice la relazione ufficiale) hanno riconosciuto da lontano il capobanda mentre assieme ad uno dei suoi uomini percorreva la via Gagini. Vistisi sorpresi, i due si sono dati alla fuga in direzioni diverse e il gregario è riuscito a dileguarsi. Giuliano invece è stato inseguito attraverso le vie della città. Contro di lui è stato fatto fuoco ripetutamente, un proiettile lo ha raggiunto alla spalla, il fuggitivo ha risposto a sua volta con la pistola e col mitra. Giunto in via Mannone, il brigante ha sperato di trovare scampo entrando in un cortile e là, mentre tentava di dare la scalata al muro di cinta oltre il quale c’è un piccolo orto e poi la campagna, è stato freddato con una raffica di mitra dal capitano. […] Gli abitanti di via Mannone invece hanno sentito. La loro testimonianza però è in contrasto con la versione ufficiale. Questa dice che il brigante esplose 52 colpi col moschetto mitragliatore che al 53° si inceppò. Giuliano buttò a terra il mitra quando era già nel cortile e impugnò la pistola, ma il capitano dei carabinieri lo prevenne scaricandogli addosso per primo un intero caricatore del suo Thompson. Gli spari insomma avrebbero dovuto susseguirsi in questo ordine: raffiche di mitra più o meno lontane (Giuliano che spara sulla strada), altra raffica dopo una pausa di silenzio (Perenze che fa fuoco all’ingresso del cortile); subito dopo forse qualche colpo di pistola (Giuliano che, prima di stramazzare a terra, tenta l’ultima difesa), forse il Thompson che risponde ancora (Perenze che ha innestato il caricatore nuovo). Invece gli abitanti di via Mannone (trascureremo i nomi della gente minuta facile ad accettare ed a ripetere come esperienza propria il racconto altrui e citeremo soltanto il pretore di Castelvetrano Giovanni De Simone, e il colonnello a riposo Santorre Vizzinisi) sono unanimi nel ripetere che si sentirono prima cinque o sei colpi di pistola sparati sotto l’arco di ingresso o nel cortile, poi due raffiche di mitra distanziate da un breve intervallo. Subito dopo si udì la voce del capitano che gridava a qualcuno di portare un po’ d’acqua per il ferito e il furioso martellare con calcio del moschetto alla porta dell’unica abitazione che si apra sul cortile.[…].”

sabato 10 aprile 2021

Motta Santa Anastasia durante il periodo Svevo

Il Castrum Sanctae Anastasiae costituì in epoca normanna e sveva uno dei più importanti presidi militari dell’isola, sia per la sua inaccessibilità naturale e capacità difensiva, sia per il ruolo strategico in termini di offesa-difesa che giocava rispetto alla città di Catania, della piana di Catania e della valle del Simeto, nonché perché sentinella posta sul confine tra il Val Demone e il Val di Noto. Con riferimento alle finalità della politica federiciana in ambito castellare, occorre comunque precisare che, in realtà, l’obiettivo finale delle norme sull’apparato castellare emanate da Federico II era quello di permettere allo stesso Federico II, oltre che il totale controllo politico-militare del territorio del Regnum Siciliae, di poter acquisire le strutture militari con più valenza strategica anche nell’Italia continentale meridionale, in possesso del Papato e di nobili di cui l’Imperatore non riteneva di potersi fidare: tale obiettivo andava coniugato con la razionalizzazione dell’amministrazione castellare finalizzata a una sostanziale riduzione dei suoi costi gestionali. Federico di Svevia, a partire dal 1232, inizia a trasformare definitivamente tutta la struttura castellare del Regno di Sicilia e anche quella specificatamente siciliana, adeguandola ai suoi disegni strategici e alle necessità politico-finanziarie dello Stato del Regno di Sicilia, dove venne creato un apposito ramo dell’amministrazione statale, ovvero l’amministrazione castellare che, in qualche modo, ricalcava l’organizzazione castellare di Re Ruggero II in parte modificata durante l’età di Tancredi.

Nella nuova riorganizzazione delle strutture militari del Regno di Sicilia, soggette al disposto del capitolo XIX delle Assise di Capua, e per l’esigenza di ridurre le enormi spese, si reputò necessaria da parte di Federico II la distruzione di oltre cento castelli, il cui mantenimento da parte dell’amministrazione castellare del Regno di Sicilia era oltremodo oneroso, e che non potevano essere lasciati incustoditi, in particolare nella parte continentale del Regno di Sicilia, giacché eventuale immediata facile preda per lo Stato Pontificio assieme ai suoi alleati costituiti dalle grandi città italiane che già manifestavano esigenze di autonomia e libertà e che potevano assumere, come di fatti lo assunsero, il ruolo di nemici dell’Imperatore Federico di Svevia: peraltro nel 1232 la conflittualità interna al Regno di Sicilia non era ancora del tutto sopita e la tensione all’autonomia delle grandi città siciliane costituiva ancora un problema da risolvere.

In Sicilia Federico lo Svevo, specie dopo la rivolta di Catania del 1232 che si unì a Messina e alle altre città siciliane che si erano ribellate alla sua politica di monopolismo politico ed economico e di compressione delle libertà civiche introdotte in Sicilia, si rende conto della necessità di costituire nella città etnea e in altri siti di alta rilevanza strategica un presidio militare che gli permettesse di averne l’assoluto controllo sulle città e sui territori circostanti: il problema, che a Catania riveste un’enorme importanza strategica, viene brillantemente risolto con la costruzione del Castello Ursino che rende sul piano strategico, nel territorio metropolitano, solo parzialmente obsoleto e militarmente meno determinante il Castello di Motta Santa Anastasia e anche quello di Aci, rispetto alla difesa di Catania.

A conferma dell’iniziale valutazione di essenzialità funzionale, infatti, sia il castello di Aci sia quello di Motta, siti ad alta valenza strategica anche rispetto alla città di Catania, vengono inseriti nel regio demanio, privando il vescovo di Catania della loro infeudazione e del loro possesso (qualora l’avesse effettivamente avuto dopo la morte della Regina Costanza); venendo inizialmente inseriti nell’elenco dei cento castelli da distruggere. La notizia certa dell’inserimento del Castrum Sanctae Anastasiae nell’elenco dei cento castelli da distruggere determina, inoltre, la possibile conseguente considerazione che questo potesse essere stato ricostruito dopo il 1197, ovvero dopo la morte di Enrico VI, da parte del vescovo di Catania: innalzato, quindi, nel periodo per cui varrà successivamente la disposizione demolitoria costituita dal testo del capitolo XIX delle Assise di Capua e delle disposizioni conseguenti alla rivolta del 1232. In relazione all’esito operativo della decisione di distruggere i famosi cento castelli del Regnum Siciliae compresi nella lista federiciana, ovvero sulla distruzione effettiva e totale di tali castelli, tra cui il Castrum Sanctae Anastasiae, vi sono opinioni divergenti circa la sua effettiva realizzazione. Per quanto attiene alla distruzione del Castrum Sanctae Anastasiae vi è da una parte Hans Niese, il quale sostiene che i castelli di Aci e Motta furono effettivamente distrutti ( 1 ), mentre Matteo Gaudioso sostiene che, in realtà, i due castelli non furono mai demoliti ( 2 ). Rispetto alle significanze storico-contestuali che sono relative alle titolazioni del sito dell’odierna Motta Santa Anastasia in quell’epoca, si può rilevare come la costante tipologica che nei documenti svevi e angioini si correla alla Rocca di Motta Santa Anastasia nel corso del XIII secolo, è il termine ‘Castrum’ o ‘Terra’. Il termine ‘Castrum’, nel contesto epocale e territoriale di cui parliamo, sta a indicare, con riferimento a quel periodo e alle classificazioni operate, l’esistenza di una fortificazione di tipo elusivamente militare, senza presenze di civili all’interno del perimetro difensivo della struttura classificata quale Castrum, come ci testimonia lo storico prussiano Eduard Sthamer che arriva a tale conclusione dopo aver esaminato attentamente la documentazione svevo-angioina. Infatti, lo Sthamer esaminando attentamente la documentazione dell’epoca sia sveva sia angioina, ci informa che: «gli atti svevi ed angioini di quest’epoca utilizzano l’espressione Castrum solo nel senso più stretto di castello [...]. E si tratta sempre di fortificazioni tali che in esse si trovi insediata solo una guarnigione militare e nessun altro tipo di abitante [...]; [dove vengono insediate famiglie il termine noto è Fortellicia, ambedue castelli fortificati per pure finalità militari; sc.]» ( 3 ).

Dobbiamo, perciò, concludere – sulla base dei termini che abbiamo riscontrato nei documenti storici e storiografici che riguardano il paese di Motta, durante il periodo che va dal 1212 al 1266 – che la condizione urbano-sociale che caratterizzava il Castello di Motta Santa Anastasia, ovvero la struttura militare fortificata posta sulla Rocca di Santa Anastasia, avendo a quell’epoca il titolo di Castrum Sanctae Anastasiae, esclude che vi fosse all’interno del suo perimetro militare una comunità civica, ma che vi fosse solo una guarnigione militare che la presidiava assieme al personale non militare necessario alla sua gestione. Ciò, evidentemente, non era in ogni caso incompatibile con la presenza, immediatamente fuori dal perimetro militare, nel suburbio o nelle campagne meno vicine, di una comunità rurale presente sul territorio attuale del paese, di Burgenses, di villani e servi della gleba asserviti al feudo vescovile e non, distribuiti in abitazioni rurali poste nel territorio annesso al feudo di cui erano pertinenze; anzi siamo quasi certi della presenza di una comunità di Burgenses e/o di possessori di beni allodiali, che forse poteva vantare antichi diritti.

Dal momento in cui Federico di Svevia inizia a riorganizzare lo Stato nel Regno di Sicilia, in un contesto in cui si trova a dover contrastare la politica dei Pontefici Romani verso l’Impero e verso il Regnum Siciliae, organizza un’amministrazione politico-militare dello Stato finalizzata al più assoluto controllo interno sul territorio e sulle popolazioni e che gli fornisca in modo rapido e massiccio le risorse di cui necessitava per l’attuazione della politica imperiale. Un passaggio fondamentale per il raggiungimento di questo obiettivo politico e militare viene raggiunto attraverso l’emanazione di una legislazione specifica che riguarda le costruzioni militari, primi tra tutti i Castra; l’interesse dello Svevo verso i castelli derivava dal ruolo fondamentale che, in tale epoca, tali strutture militari ricoprivano nel controllo interno del territorio dello Stato federiciano e nella possibilità che esse offrivano nell’opposizione e resistenza ai nemici esterni. Confermando il principio giuridico secondo cui la costruzione di un castello e la sua gestione era un atto di esclusiva competenza dell’Imperatore, Federico di Svevia sottrasse alla diretta gestione e influenza dei potenti vassalli tutte le costruzioni militari di rilievo strategico; ordinando la già riferita distruzione di circa cento di essi nell’intero territorio del Regno di Sicilia, laddove gli stessi non erano strategicamente funzionali alla difesa dall’esterno o potevano costituire pericolosa occasione di occupazione e resistenza interna nel regno. Anche alcuni Castra dati in feudo alla nobiltà e ai feudatari in genere, o che erano stati costruiti senza la necessaria autorizzazione imperiale, subirono questo destino, compreso il Castrum Sanctae Anastasiae che, come già detto, venne inserito in un elenco di castelli da distruggere; il Castrum Sanctae Anastasiae.

Tutti i castelli, che in tempo di pace erano sottoposti a un castellano e a pochi uomini di guarnigione, furono muniti di mercenari oppure occupati dai feudatari vicini» ( 4 ). Tutti coloro che potevano essere in sospetto di non essere assolutamente fedeli all’Imperatore, o che avrebbero potuto non esserlo in futuro, furono sostituiti, come avvenne per il castellano del Castello di Santa Anastasia. Tale vicenda, peraltro, ci fornisce una prova diretta che il Castrum Sanctae Anastasiae sia stato, probabilmente o almeno in parte, risparmiato nel 1232, e che esso sin da quella data dipendesse direttamente dall’Imperatore: abbiamo infatti una lettera dell’Imperatore Federico di Svevia: questi, infatti, scriveva da Foligno il 5 febbraio 1240, in risposta al Secreto di Messina che lo informava dei provvedimenti presi, e gli confermava la sua  approvazione per aver rimosso i castellani di Aci e Sant’Anastasia, non ritenuti idonei o, per meglio dire, affidabili: «De castro Iacii et Sancte Anastasie, a quibus castellanum tamquam non ydoneum amovisti, iamdudum provvidimus nostre beneplacidum maiestatis» ( 5 ).

La struttura castellare dell’odierna Motta Santa Anastasia durante il periodo federiciano venne, comunque, inglobata nell’apparato dei castelli del Regnum Siciliae come testimoniano alcune lettere dell’Imperatore anche se, come vedremo, non direttamente soggetta alla gestione della amministrazione castellare. A causa, purtroppo, del deterioramento o della distruzione dei documenti della cancelleria sveva, per gli elementi che sono stati riportati solo parzialmente da alcuni storici, non possiamo documentare in modo assolutamente certo se il Castrum Sanctae Anastasiae sia stato sottoposto alla gestione della amministrazione castellare del Regno di Sicilia (gestione Curiale), o sia stato inserito tra i Castra Exempta, ovvero tra quei castelli sottoposti al diretto controllo dell’Imperatore Federico II. I dati disponibili, comunque, ci inducono comunque a ipotizzare che il Castrum Sanctae Anastasiae fosse inserito tra i Castra Exempta controllati direttamente dall’Imperatore.

La relativa incertezza circa la collocazione del Castrum Sanctae Anastasiae nell’ambito dei Castra Exempta deriva dal fatto che dalla documentazione disponibile, lo stesso Sthamer non ha potuto riscontrare interamente i documenti svevi dell’epoca che avrebbero potuto far chiarezza su questo aspetto della storia dei castelli siciliani e anche sulla storia di Motta e del suo Castello: dai documenti esaminati, infatti, lo studioso prussiano dichiara di non essere in condizione di poter elencare tutti i Castra Exempta in quanto, come riferisce: «la lista dei castra exempta tramandata dal registro di Federico II è purtroppo lacunosa» ( 6 ), e, pertanto, non viene riportata nel suo lavoro.

Come vedremo dall’esame di altri elementi che ci ha fornito la nostra ricerca, siamo indotti a credere – pur in assenza del nome del Castrum Sanctae Anastasiae in quella parte dei documenti pubblicati con riferimento all’elenco dei Castra Exempta che lo Sthamer ha potuto esaminare all’inizio del Novecento e che già allora erano in parte rovinati – che vi siano elementi oggettivi e correlati che ci permettono di sostenere che il Castrum Sanctae Anastasiae era inserito tra i Castra Exempta alle dirette dipendenze dell’Imperatore svevo. Lo Sthamer sostiene che nel 1239 Federico II operò la sostituzione dei castellani proprio in quelle strutture castellari che, per la particolare importanza che a essi veniva riconosciuta dall’Imperatore, dalla gestione della amministrazione castellare del Regno di Sicilia passarono alla diretta gestione dell’Imperatore; tali castelli vennero definiti Castra Exempta. Quanto affermato dallo Sthamer, quindi, ovvero che i castelli ove nel 1239 furono disposte le sostituzioni dei castellani (tra cui il Castrum Sanctae Anastasiae) avessero acquisito la condizione di Castra Exempta, ci permette di affermare che nel 1239 il Castrum Sanctae Anastasiae esisteva, che fu scorporato dalla amministrazione castellare del Regno di Sicilia, che lo aveva avuto in gestione dal 1232 al 1239, e inserito nel 1239 tra i Castra Exempta, sottoposto alle dirette dipendenze gestionali di Federico II: probabilmente per la sua rilevante importanza strategica attribuita a esso dallo stesso Imperatore Federico II. Il fatto, inoltre, che la sostituzione del castellano del Castrum Sanctae Anastasiae sia stata determinata dal Secreto e non dal Provvisor Castra dovrebbe essere considerato elemento definitivo di prova per attestare la sua appartenenza ai Castra Exempta.

Bibliografia:

  1. Hans Niese –Il Vescovato di Catania e gli Hohenstaufen in Sicilia – in ASSO,XII, 1915, p.80.
  2. Matteo Gaudioso – La questione demaniale in Catania e nei casali del Bosco Etneo – Libreria Musumeci Editrice –Catania 1971, p. 12.
  3. Eduard Sthamer – L’amministrazione dei castelli nel Regno di Sicilia sotto Federico II e Carlo D’Angiò – trad. di F. Panarelli – Mario Adda Editore, Bari 1995, p. 6.
  4. Ernst Kantorowicz – Federico II Imperatore – Garzanti – Milano 1981, p. 49.
  5. Cristina Carbonetti Venditelli – Il registro della Cancelleria di Federico II del 1239-1240 – a cura dell’Istituto Storico Italiano per il Medioevo – Roma 2002, vol. II, p. 503.
  6. Eduard Sthamer, cit., p. 57.

martedì 9 marzo 2021

Quando un ciclone devastò Favara

Il sacerdote Giuseppe Cafisi, arciprete di Favara, ha documentato gli straordinari e disastrosi eventi atmosferici che interessarono la “Terra Della Favara” il 10 marzo 1772, che causarono danni e distruzioni per una eccezionale grandinata, durata diverse ore, e di un ciclone che distrusse ogni cosa che incontrò sul suo cammino.

Dalle prime ore di quel 10 marzo 1772 la temperatura a Favara si era abbassata in modo insolito e notevole e tale si mantenne per l’intera giornata; alle ore 19,30 su Favara si abbatte una violentissima grandinata, durata oltre tre ore, con chicchi di grandine anche di dimensioni pari a quella di una grossa arancia e, dice il Cafisi: “ … accompagnata da fulmini, e tuonise ne pesò dopo tre ore una di due libre, e undeci oncie, oltre le tante, che se ne dicono, forse con iperbole, cadute più grosse. Si ruppero al loro empito quasi il terzo delle tegole delle case, e le vetrate delle fenestre con gravissimo danno di ciascheduno. Lo spavento, e il timore, che grandini di tal non mai veduta grossezza non facessero cadere i tetti delle case, preservò molta gente dalla morte, mentre da alcuni si accorse alle chiese, e da altri a luoghi più sicuri, ove, ove non arrivò poi il Turbine, o almeno non produsse i violenti effetti del suo furore.”

Di li a poco su Favara si abbatte la furia di un ciclone che: “ … produsse quei deplorabili danni, che faran per gli altri oggetti di meraviglia, e per noi lo faranno per più anni di amaro pianto.

A causa dell’arrivo del ciclone: “ … si alzarono su quell’acque tre colonne come di agitato, e torbido fumo, l’una alla Pietra Patella, l’altra alla Foce del Fiume di Naro, e la terza al di là della Chiesa di S. Leone, queste ora diritte, ora curve, tornando colla loro cima a battere, e a dividere le onde con empito, lanciavano dal seno fulmini, e tuoni, e poi unitesi le due estreme a quella del mezzo, formossene una sola, che uscita dal mare, e tornatavi di belnuovo dopo il dibattimento di un’ora, ne uscì interamente, e dirizzò il suo corso al Nord verso quella sfortunatissima Patria.

Nel corso del suo cammino il ciclone: “Tutto rovinò, alberi, fabbriche, e siepi. Si contarono in un podere di non più che quattro tumuli di Terre (era tal campo proprio di Domenico Sorcio) 68 alberi di mandorlo svelti dal suolo, e 112, in un altro campo vicino, e innumerabili altri in tutti quei luoghi, per cui passò il Turbine, che furono l’oggetto della mesta curiosità, e spavento di tutti noi […].”

Narra ancora Giuseppe Cafisi che il ciclone: “La prima casa che incontrò, tuttoché fabbricata nello scorso Maggio, restò diroccata fin dalle fondamenta, facendone volar per aria il tetto, e le tegole, e ne trasportò una trave lungi più di 500 passi. Rovesciò tante altre case, rovinò molti tetti, e quei tra gli altri della Chiesa di S. Francesco, di nostra Signora delle Grazie, cui conquascò pure il campanile, e di S. Calogero, ove cadde la pesante statua del Santo, che si spezzò un braccio, e una mano, ed in essa piena di tanta gente non accadde alcun disastro con gran meraviglia d’ognuno. […] Entrò pure nella Chiesa Parrocchiale, ruppe la grossa stanga, che ne chiudeva la porta maggiore, fe ballare sull’alto tetto e tegole, sul pavimento i sedili, che vi erano per comodo di ascoltar la predica della quaresima, fe vacillare il Pulpito, sollevò in aria i veli, che coprivano le sacre immagini, estinse le lampadi, ma non già le candele accese all’altare, ove è riposta la Sacra Pisside. Grande fu qui lo spavento, che provò quella Gente ivi accorsa poco pria per lo timor della grandine, ma fu maggiore, quando sopraggiunsero per lo terrore del Turbine donne scarmigliate, e confuse, uomini semivivi, e tremanti, ne’ può facilmente descriversi uno spettacolo così lacrimevole; la confusione, i pianti, e tutto ciò, che detta il timor della morte, produssero degli svenimenti pericolosi, e fino tre gravide fece temere di imminente aborto, sebbene una di esse solamente abbia ivi dato a luce un fanciullo. […] Lo strepitoso fragore del Turbine accresciuto da quello delle rovine di tante fabbriche, il tremor della Terra, che sebbene non sia stato un vero Tremuoto, ma comunicatosi al suolo dallo scotimento delle fabbriche, come dalle vele a pesante Nave si comunica il moto in quelle prodotto da venti, tuttavia fu da molti sensibilmente percepito, ci fece a ragione tutto ciò temere l’eccidio del Mondo. […] Si saputo da chi scrive, che la statua di S. Calogero, pria di cadere a terra, fece come un giro nell’aria. Ha veduto l’Autor della presente, che il Turbine svelse dalle radici un grand’Albero di Mandorlo, che era nato in mezzo a una gran pietra, e pure fe precipitare un gran masso; come un tale effetto si vide in qualche altro luogo, ove si scorgono cadute pietre molto sorprendenti.”

 


Critolao il più famoso sarto di Sicilia

Gaius Licinius Verres ( Verre) venne nominato Pretore di Sicilia nel 73 a.C. ed usufruendo di una imprevista proroga del suo mandato dovuta ...